mercoledì 10 giugno 2020

R. Farina, Io per Bruno Brancher non ho mai pagato: un piccolo capolavoro pieno di refusi.





E’ un giorno d’un giugno di pioggia e marmellata. Ho appena finito di leggere l’ultima pubblicazione di Roberto Farina, Io per Bruno Brancher non ho mai pagato. Il mio umor cangiante, come queste mattine che “doveva essere estate e invece…”, d’improvviso ha subito una specie di mutazione genetica: avevo custodito per giorni il libro sul comodino, attendendo che la didattica a distanza e gli adempimenti di fine anno scolastico mi concedessero di concedermi il lusso di una tregua.
La tregua è arrivata e che tregua! Tre ore traboccanti dell’impetuosa giovinezza di un ladro scrittore che incontra fatidicamente “l’ultimo picaro” di nascita, “l’uomo delle biciclette gialle” di mestiere, il poeta per grazia ricevuta.
In realtà, come sempre accade per i libri di Farina, non si sa mai quale sia il limite tra romanzo, saggio, biografia: ciò che crea Roberto Farina sfida ogni definizione teorica ed esplora terreni di scrittura abitati dallo stupore, dalla seduzione, da quel desiderio di percorrere le sillabe con le mani, con gli occhi, con la bocca… Ad ogni sillaba conquistata, si entra in una sorta di turbamento che invade il tempo e la spazio e ti trascina nella dimensione smisurata di spaccati di vita dei quali poi è come se si avesse il sentore di aver fatto parte. E allora eri con Giandante che percorreva le vie impervie dei suoi volti, eri con Nori che sognava il pane bianco, eri con Gianca morso dal fuoco.
Questa volta il lettore è sopraffatto dai vent’anni travolgenti, avventurieri, di un irresistibile Roberto Farina, che si lancia, come il piè veloce Achille, nella sua giovinezza affamata di eterni oggi e, allora, ecco che Io per Bruno Brancher non ho mai pagato è un romanzo di formazione, un atto di gratitudine, un ricordo sublime, un dono che vuole denudare la bellezza.
Il libro si apre con un furto e una giustificazione: il ragazzotto milanese che ruba Tre monete d’oro e la descrizione di una passione della giovinezza, che è come un bicchiere d’acqua fresca sotto la calura: “Eravamo sorridenti, giovanissimi, con la coscienza tersa come un cielo d’estate sempre blu. Chi ha avuto questo mucchietto di cose tutte insieme sa di cosa parlo, quando dico che eravamo felici”, felici come i titani, perché “Anche Prometeo era un ladro”.
Quindi, Farina sfodera una vera pubertà della parola, una scrittura di entusiasmi, che si posa sulla pelle come lenzuola fresche alla controra. L’incontro con Bruno Brancher che “trottava colorato e smuoveva l’aria all’intorno”: sembrava “traboccare vitalità?”, si chiede il giovane Farina, e a quell’incontro sembra d’esserci stati.
Di Bruno viene fuori un ritratto strabiliante di “un monello pescato con le mani nella marmellata”, ma anche di un uomo dalla sofferenza indicibile: Bruno la vita se l’era ingoiata con tutte le sue spine, con tutti i suoi macigni e le sue disperazioni. Con ostinazione e testardo attaccamento.
Il carcere diventa per questo ladro balbuziente il luogo della trasformazione: “In carcere ti tolgono la libertà e ti danno la noia. Una noia mortale, disperata. […] Fu allora che imparai a scrivere, intendo dire a mettere a posto le sillabe per poi formare le parole e in seguito un pensiero, e poi incominciai a leggere, leggevo di tutto, dai fumetti a Tolstoj, quando non capivo qualche cosa, andavo a farmela spiegare da un laureato, ce ne sono tanti in carcere”.
La casa di Bruno era per Roberto un’alcova di misteri, che sapeva di  legno vecchio e tabacco” e nel cortile c’era un pesco a coronare la strana aura del luogo: “Quel pesco non scavalcava l’inverno, lo attraversava fiorendo”, esattamente come Bruno.
Via dei Cinquecento “brulicava di vita” ed è occasione di vedere la signora che salvava i fiori, Pilù, il vecchio che cantava la canzonetta del Balilla o l’Internazionale, i due del piano di sopra che fanno l’amore. Bruno osserva; Roberto lo asseconda e poi fantastica. Fanno un patto d’amore e il loro giuramento si inorgoglisce di Barbera, una manciata di noci e grana a cubetti.
A questo punto si è completamente sedotti: dalla vitalità di Brancher e dalla vitalità della parola di Farina, connubio senza fine bello. E a quella domanda-traboccare vitalità?- la risposta è affermativa.
 Quasi a metà racconto, eccoci a “L’orrendo misfatto”: un delitto d’amore raccontato con amore. Siamo a pagina 42 e si prova un misto di commozione, rabbia, rispetto, dolore, ma soprattutto si ricambia amore. Per il candore di un uomo che afferma: “Sono solo innamorato di Patrizia, che tiene solo trentadue anni meno di me”. “L’orrendo misfatto” gli costa un’atroce galera, divenuta educazione di sé a resistere: si sentiva braccato e cercava la solitudine, fino alla decisione di “non piangere più”; allora, durante la rivolta di Capodanno a San Vittore, Bruno con le Confessioni di Sant’Agostino in mano, pensa a Patrizia.
Poi le poesie di Ricky, il rapporto con Paz; l’offesa del Botolo, il furto delle poesie “del suo amato François Villon (che lui pronunciava con tre “L” ben scandite)”. Le amnesie, il cuore in mille pezzi, i ricordi d’infanzia, l’estate in Salento, Marcinelle. Milano, la Milano di Bruno, della sua Alda, di Ricky, di Roberto. Un finale che lascia senza fiato.
Cin, cin, Bruno! Scrivi, scrivi! Se Euridice è perduta, ci rimane il canto di Orfeo. Il poeta strappa il terreno alla morte. Il resto è grammatica! Salute, salute! Cin cin!”.
Per pagine così, ci si può vendere l’anima: Farina è come la luce del tramonto che sbatte sul marmo bianco di una scultura; non se ne può parlare. La si deve vivere. Farina è Prometeo. La sua scrittura è il fuoco. E il lettore è “un uomo che mangia pane” investito dalla grazia.
Io per Bruno Brancher non ho mai pagato è fecondo seme di giovinezza in un mondo che, ahimè, è ridotto a un pavimento di scadentissima graniglia graffiato da scarponi chiodati. Però è come se Medea, la tradita, fosse ascesa all’Olimpo e lo avesse trovato abitato da due divinità superstiti, immortali, libidinose, eccelse. Due soltanto.
E lei rinasce dopo lavacri sacri di poesia. Per stanare refusi. Per baciare in fronte quella giovinezza.

Francesca Aurelio