E’ un giorno d’un giugno di pioggia e marmellata. Ho
appena finito di leggere l’ultima pubblicazione di Roberto Farina, Io per Bruno Brancher non ho mai pagato.
Il mio umor cangiante, come queste mattine che “doveva essere estate e invece…”,
d’improvviso ha subito una specie di mutazione genetica: avevo custodito per
giorni il libro sul comodino, attendendo che la didattica a distanza e gli
adempimenti di fine anno scolastico mi concedessero
di concedermi il lusso di una tregua.
La tregua è arrivata e che tregua! Tre ore traboccanti
dell’impetuosa giovinezza di un ladro scrittore che incontra fatidicamente “l’ultimo
picaro” di nascita, “l’uomo delle biciclette gialle” di mestiere, il poeta per
grazia ricevuta.
In realtà, come sempre accade per i libri di Farina,
non si sa mai quale sia il limite tra romanzo, saggio, biografia: ciò che crea
Roberto Farina sfida ogni definizione teorica ed esplora terreni di scrittura
abitati dallo stupore, dalla seduzione, da quel desiderio di percorrere le
sillabe con le mani, con gli occhi, con la bocca… Ad ogni sillaba conquistata, si
entra in una sorta di turbamento che invade il tempo e la spazio e ti trascina
nella dimensione smisurata di spaccati di vita dei quali poi è come se si
avesse il sentore di aver fatto parte. E allora eri con Giandante che
percorreva le vie impervie dei suoi volti, eri con Nori che sognava il pane
bianco, eri con Gianca morso dal fuoco.
Questa volta il lettore è sopraffatto dai vent’anni
travolgenti, avventurieri, di un irresistibile Roberto Farina, che si lancia,
come il piè veloce Achille, nella sua giovinezza affamata di eterni oggi e,
allora, ecco che Io per Bruno Brancher
non ho mai pagato è un romanzo di formazione, un atto di gratitudine, un
ricordo sublime, un dono che vuole denudare la bellezza.
Il libro si apre con un furto e una giustificazione:
il ragazzotto milanese che ruba Tre
monete d’oro e la descrizione di una passione della giovinezza, che è come
un bicchiere d’acqua fresca sotto la calura: “Eravamo sorridenti, giovanissimi, con la coscienza tersa come un cielo
d’estate sempre blu. Chi ha avuto questo mucchietto di cose tutte insieme sa di
cosa parlo, quando dico che eravamo felici”, felici come i titani, perché “Anche Prometeo era un ladro”.
Quindi, Farina sfodera una vera pubertà della
parola, una scrittura di entusiasmi, che si posa sulla pelle come lenzuola
fresche alla controra. L’incontro con Bruno Brancher che “trottava colorato e smuoveva l’aria all’intorno”: sembrava “traboccare vitalità?”, si chiede il
giovane Farina, e a quell’incontro sembra d’esserci stati.
Di Bruno viene fuori un ritratto strabiliante di “un monello pescato con le mani nella marmellata”, ma anche di un uomo dalla sofferenza indicibile: Bruno la vita se l’era ingoiata con tutte le sue spine, con tutti i suoi macigni e le sue disperazioni. Con ostinazione e testardo attaccamento.
Il carcere diventa per questo ladro balbuziente il luogo della trasformazione: “In carcere ti tolgono la libertà e ti danno la noia. Una noia mortale, disperata. […] Fu allora che imparai a scrivere, intendo dire a mettere a posto le sillabe per poi formare le parole e in seguito un pensiero, e poi incominciai a leggere, leggevo di tutto, dai fumetti a Tolstoj, quando non capivo qualche cosa, andavo a farmela spiegare da un laureato, ce ne sono tanti in carcere”.
Di Bruno viene fuori un ritratto strabiliante di “un monello pescato con le mani nella marmellata”, ma anche di un uomo dalla sofferenza indicibile: Bruno la vita se l’era ingoiata con tutte le sue spine, con tutti i suoi macigni e le sue disperazioni. Con ostinazione e testardo attaccamento.
Il carcere diventa per questo ladro balbuziente il luogo della trasformazione: “In carcere ti tolgono la libertà e ti danno la noia. Una noia mortale, disperata. […] Fu allora che imparai a scrivere, intendo dire a mettere a posto le sillabe per poi formare le parole e in seguito un pensiero, e poi incominciai a leggere, leggevo di tutto, dai fumetti a Tolstoj, quando non capivo qualche cosa, andavo a farmela spiegare da un laureato, ce ne sono tanti in carcere”.
La casa di Bruno era per Roberto un’alcova di
misteri, che sapeva di “legno vecchio e tabacco” e nel cortile c’era
un pesco a coronare la strana aura del luogo: “Quel pesco non scavalcava l’inverno, lo attraversava fiorendo”,
esattamente come Bruno.
Via dei Cinquecento “brulicava di vita” ed è occasione di vedere la signora che salvava i fiori, Pilù, il vecchio che cantava la canzonetta del Balilla o l’Internazionale, i due del piano di sopra che fanno l’amore. Bruno osserva; Roberto lo asseconda e poi fantastica. Fanno un patto d’amore e il loro giuramento si inorgoglisce di Barbera, una manciata di noci e grana a cubetti.
A questo punto si è completamente sedotti: dalla vitalità di Brancher e dalla vitalità della parola di Farina, connubio senza fine bello. E a quella domanda-traboccare vitalità?- la risposta è affermativa.
Via dei Cinquecento “brulicava di vita” ed è occasione di vedere la signora che salvava i fiori, Pilù, il vecchio che cantava la canzonetta del Balilla o l’Internazionale, i due del piano di sopra che fanno l’amore. Bruno osserva; Roberto lo asseconda e poi fantastica. Fanno un patto d’amore e il loro giuramento si inorgoglisce di Barbera, una manciata di noci e grana a cubetti.
A questo punto si è completamente sedotti: dalla vitalità di Brancher e dalla vitalità della parola di Farina, connubio senza fine bello. E a quella domanda-traboccare vitalità?- la risposta è affermativa.
Quasi a metà
racconto, eccoci a “L’orrendo misfatto”:
un delitto d’amore raccontato con amore. Siamo a pagina 42 e si prova un misto
di commozione, rabbia, rispetto, dolore, ma soprattutto si ricambia amore. Per
il candore di un uomo che afferma: “Sono
solo innamorato di Patrizia, che tiene solo trentadue anni meno di me”. “L’orrendo
misfatto” gli costa un’atroce galera, divenuta educazione di sé a resistere: si
sentiva braccato e cercava la solitudine, fino alla decisione di “non piangere più”; allora, durante la
rivolta di Capodanno a San Vittore, Bruno con le Confessioni di Sant’Agostino
in mano, pensa a Patrizia.
Poi le poesie di Ricky, il rapporto con Paz; l’offesa del Botolo, il furto delle poesie “del suo amato François Villon (che lui pronunciava con tre “L” ben scandite)”. Le amnesie, il cuore in mille pezzi, i ricordi d’infanzia, l’estate in Salento, Marcinelle. Milano, la Milano di Bruno, della sua Alda, di Ricky, di Roberto. Un finale che lascia senza fiato.
“Cin, cin, Bruno! Scrivi, scrivi! Se Euridice è perduta, ci rimane il canto di Orfeo. Il poeta strappa il terreno alla morte. Il resto è grammatica! Salute, salute! Cin cin!”.
Poi le poesie di Ricky, il rapporto con Paz; l’offesa del Botolo, il furto delle poesie “del suo amato François Villon (che lui pronunciava con tre “L” ben scandite)”. Le amnesie, il cuore in mille pezzi, i ricordi d’infanzia, l’estate in Salento, Marcinelle. Milano, la Milano di Bruno, della sua Alda, di Ricky, di Roberto. Un finale che lascia senza fiato.
“Cin, cin, Bruno! Scrivi, scrivi! Se Euridice è perduta, ci rimane il canto di Orfeo. Il poeta strappa il terreno alla morte. Il resto è grammatica! Salute, salute! Cin cin!”.
Per pagine così, ci si può vendere l’anima: Farina è
come la luce del tramonto che sbatte sul marmo bianco di una scultura; non se
ne può parlare. La si deve vivere. Farina è Prometeo. La sua scrittura è il
fuoco. E il lettore è “un uomo che mangia pane” investito dalla grazia.
Io
per Bruno Brancher non ho mai pagato è fecondo seme di
giovinezza in un mondo che, ahimè, è ridotto a un pavimento di scadentissima graniglia
graffiato da scarponi chiodati. Però è come se Medea, la tradita, fosse ascesa
all’Olimpo e lo avesse trovato abitato da due divinità superstiti, immortali, libidinose,
eccelse. Due soltanto.
E lei rinasce dopo lavacri sacri di poesia. Per stanare refusi. Per baciare in fronte quella giovinezza.
E lei rinasce dopo lavacri sacri di poesia. Per stanare refusi. Per baciare in fronte quella giovinezza.
Francesca Aurelio