Ci sono libri che rivelano, che cambiano il nostro modo di
guardare fuori dalla finestra, che ci portano ad un dialogo interiore con noi
stessi, che consentono un percorso accidentato dell’anima e, proprio per questo,
colmo di fascino e di incantamento: uno di questi libri è certamente L’ultima
notte di Achille, di Giuseppina Norcia. L’autrice è siracusana: la sua “siracusanità” è in ogni
fibra del suo essere donna magnogreca, avvezza alla forza tanto quanto alla
bellezza, ha sulla pelle quel profumo che soltanto il sud emana e negli occhi
quella canicola siciliana che punge lo spirito e l’immaginazione. La stessa
“siracusanità” abita le sue parole: L’ultima notte di Achille è un romanzo
viscerale, è il racconto ancestrale dell’uomo che nasce e che nasce insieme
alla morte, non mostro, ma compagna di ventura.
Il “figlio del mare” è raccontato da una voce narrante d’eccezione: Thanatos,
Morte. L’ultima notte di Achille è l’occasione per Thanatos di ripercorrere,
parlando sommessamente all’orecchio del figlio di Teti, la vita di un eroe che
diventa, nelle pagine della Norcia, un Cristo ante litteram: egli si immola,
perché si compia il suo destino.
Ad Achille, del resto, la morte vuol
bene da sempre: eppure questo indissolubile quanto inesorabile amore si esplicita
nella continua lotta contro la paura, una paura ambivalente, umanissima per
Achille e divina per sua madre: entrambi lottano contro un destino
ineluttabile. Entrambi sono figure titaniche: sanno, da sempre, quali scelte
bisogna fare e quali ne saranno le
incontrovertibili conseguenze.
E’ il romanzo di una
metamorfosi dolorosa, di un divenire altro da sé che logora, di un mutare la
pelle che diventa estenuante. E allora l’amore per Deidamia, dopo la
metamorfosi di Sciro, rivela la realtà: Achille torna ad essere se stesso e
questo sarà un ulteriore passo verso la morte necessaria, che è la Verità che
egli si porta addosso. Quindi Patroclo: l’uomo della vita di Achille, l’amore
oltre i sensi, oltre i nervi, oltre ogni confine; quando si ritrovano, dopo il
soggiorno obbligato di Achille a Sciro, voluto da sua madre, per preservarlo
dalla guerra, l’eroe avrebbe voluto abbracciare il suo diletto, ma ha timore di
farlo: “Avresti abbracciato il suo corpo
nudo, disperatamente, avresti voluto che il tuo amico ti tenesse stretto a sé
fino a farti male, ma provasti pudore per quel desiderio ancora indecifrabile,
temendo che lui potesse ritrarsi o respingerti”.
Parte Achille, si reca a rimaner principe per sempre: lui
non sarà mai re, come Peleo o Priamo, che sono vegliardi, lontani, per gli anni
e per le distanze, da questo eroe che trabocca di umanissimo sentire: in Aulide
è furioso, non può comprendere il padre che immola sua figlia, tutto il suo
essere è nel sangue di Ifigenia, tutta la sua pietà è per Clitemnestra, che
tiene tra le braccia, come se fosse sua madre stessa, mentre la figlia muore.
Ancora la morte. Sempre la morte. Gli abita accanto, mentre gli sta dentro, fin
da quando gli strappò un capello d’oro, mentre Teti lo immergeva, in fasce,
nelle acque dello Stige: ma l’antidoto al veleno della morte per Achille è
stato l’amore sempre, quell’amore che lo ha condotto poi alla sua stessa pira
infuocata.
La narrazione della Norcia raggiunge altezze epiche, tragiche, liriche e queste
ultime, forse, sono la nota dominante di tutta la sua scrittura: la prosa
poetica di Giusi Norcia regala pagine indimenticabili, passaggi che si
imprimono nell’anima e restano lì, come regali, come le lampare all’orizzonte
nelle notti senza luna, come sogni, come “unico fiore in mezzo alla tempesta”.
E’ il caso dei passi formidabili sull’amore per Patroclo: “Prendesti allora le sue braccia e te le stringesti intorno, con forza,
e in quell’abbraccio sentisti per la prima volta di aver trovato casa.
Ti inebriò il suo odore di rosa e di oliva, mentre sentivi i suoi capelli
scendere sciolti sul tuo collo. Il vostro respiro mutò, senza paure, senza
remore, nelle poche parole prima del silenzio, nelle carezze di Patroclo sulle
tue labbra, sul petto, sui tuoi fianchi duri, nella sua bocca che proseguiva
ciò che le mani avevano iniziato.
Quell’ultima notte in Aulide dormiste in spiaggia sotto la prua di una nave
nera, aggrappati l’uno all’altro come naufraghi. Il soffio dei venti,
finalmente liberi, faceva fremere i vostri corpi caldi, sudati, sfiancati come
dopo una lotta. Il tempo era giunto, ormai”.
Dopo un altrettanto lirico intermezzo di Thanatos, gli eroi vanno alla guerra:
Achille esita ancora tra la vita e la gloria, ma il suo destino “è sempre stato
uno solo”; un’ultima trasformazione: Patroclo indossa le armi di Achille,
diventa l’altro Achille e va a morire, portandosi con lui l’amore, la vita di
quell’umanissimo figlio divino che piange e trema e compatisce; che si adira e
muore.
Il romanzo di Giuseppina Norcia è come un lampo che illumina
a giorno le notti più cupe: è travolgente come certe pagine antiche, è
sapiente, salino; è come il vento che viene dal mare e porta l’odore della
salsedine, ti resta addosso; è come quel punto dove l’orizzonte si perde e
l’essere umano piange la sua terra lontana, sapendo che vi ha già fatto
ritorno. L’ultima notte di Achille è uno dei romanzi più belli che io abbia
letto negli ultimi tempi: avrei voluto durasse ancora a lungo, che mi
accompagnasse per altre notti ed altri sentieri ancora; le pagine sono finite,
ma le parole della Norcia restano. Impresse. Dentro. Con la sensualità del
verbo dei sacerdoti, degli indovini e dei poeti.
Francesca Aurelio
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