lunedì 12 marzo 2018

“Litri di mistura attraverso le budella”: La ballata del Pelé di Roberto Farina.



Ogni volta che si apre un libro di Roberto Farina, dopo i primi capoversi, si comincia a pensare di avere a che fare con qualcosa che cambierà il proprio modo di vedere il mondo: è ciò che accade quando si ha tra le mani un libro degno di essere letto, una specie di “classico” post litteram, in cui gli eroi si chiamano Giandante X, pittore (ma essenzialmente un colosso col volto spigoloso e gli occhi quasi invisibili),  Nori Brambilla Pesce, partigiana (ma essenzialmente un colosso dai capelli ad onde e con gli occhi straordinariamente scintillanti), Flavio Costantini, pittore (ma un colosso di eleganza e di cordiale, cordialissima anarchia); poi, ci sono le balene in fiamme ed i fumetti… poi, c’è La ballata del Pelé, che è “una storia di osteria, malavita e nostalgia”, uscito il 1° marzo (Milieu edizioni).
E’ una ballata corale: la voce narrante è quella del Pelé, Giancarlo Peroncini, una specie di funambolo, che, tra furti e musica, attraversa una Milano che affascina, che è stata, che vibra nel ricordo e nella nostalgia, nelle lacrime e nei lutti, nelle canzoni soprattutto, e che sembra poter essere ancora, nelle pagine di questo libro che è un romanzo, una memoria storica, il diario di un’epoca non troppo lontana.
La ballata del Pelé è un catalogo ricchissimo di esseri umani corposi e intensi che, tra i fumi del vino e l’unto della carne, sfilano in una Milano irresistibilmente liquida per le sue acque, che scorrono ctonie e si stagnano, a volte, nei navigli: una Milano che sembra scorrere essa stessa come lava, nei ricordi di un uomo innamorato che parla e di un uomo che si innamora, scrivendo.
Prima di tutto, di questa ballata restano le donne: la storia della Rosetta, con l’articolo determinativo femminile singolare davanti: La Rosetta, la fanciulla della canzone popolare che Pelé ancora va cantando, accompagnandosi con il suo tollofono, nelle notti di una Milano che non vuole lasciar andare: “La storia della Rosetta era ben nota ai milanesi, tutti ricordavano la figura di una prostituta di diciannove anni che una notte d’agosto del 1914 era stata uccisa a colpi di calcio di pistola da un questurino col quale si era rifiutata di andare”. C’è La Tiziana, la moglie del Gilberto: “Le piaceva essere scollacciata, talvolta mostrava le cosce piene e pallide, accavallandole pesantemente o andando avanti e indietro per la Briosca: questo non la faceva sembrare molto virtuosa, ma era tutt’altro che sconveniente. Se lavorava di ventaglio, con le labbra socchiuse, era irresistibile”; a far da contropartita c’era La Elda, “una brunetta piccola, dai modi garbati ma spicci: aveva un modo tutto suo di dire le cose, era dura, ma accompagnava le parole, anche le più severe, con gesti di gentilezza”; c’è La Maria, che “si butta nel Naviglio”, salvata dagli avventori della Briosca, che mostra “due gocce tonde agli angoli degli occhi, pronte a cadere, povera stella”; c’è La Mariangela, con “gli occhi che sembravano verdi come l’erba dei campi sotto la pioggia”; c’è La Didi Martinaz: “Lei viveva liberamente le sue passioni”, “della sua bellezza se ne faceva un gran parlare. […] Lei lo sapeva, portava sulle labbra il vago sorriso delle donne consapevoli del loro fascino”. Donne irrequiete, donne di traverso, donne disperate, donne che hanno saputo vivere e morire. Con goliardica disperazione o disperata goliardia: poco importa.
Poi ci sono gli uomini della ballata: il signor Pippo, Nanni Svampa, il Pinza, Gildo Negri, partigiano e comunista, c’è Bruno Brancher, lo scrittore malandrino, il Wanda, c’è Primo Moroni, Dix, c’è Billy, c’è il Conte, che “lo chiamavano così perché somigliava a Dracula, ma anche perché non usava il dialetto, parlava come i signori insomma. Era alto, snello, aveva i capelli neri. Aveva occhi scuri e brillanti come due olive, appoggiati su due occhiaie che sembravano disegnate con il sughero abbrustolito”: “Il Conte era uno di quegli uomini che si tengono stretta la loro rabbia, perché gli tiene occupata l’anima, gli fa compagnia”; il Conte era un groviglio di magrezza e di passione, passione per la Didi; il Conte è l’uomo dell’amore che mente, dell’addio, dell’infelicità e del coraggio. C’è Erik, “un ragazzo magro dagli occhi chiari, sempre elegante. […] Aveva uno sguardo tagliente, diffidente, ma gentile”, una sera entra in Briosca in mutande, aveva fatto un tuffo nel Naviglio: “Prendetela come una lettera d’addio”, aveva detto agli avventori suoi amici dell’osteria, andava via da Milano, “la città è stata sommersa dalla droga” e lui, giovane pittore, doveva scegliere se andare via o morire.
Quindi, ci sono i luoghi della ballata: Milano, dolcissima, struggente e amara e lenta, le cui “facciate delle case avevano l’intonaco giallo scrostato, sull’acqua verde scorrevano le chiatte cariche di sabbia proveniente dalle cave. La sabbia era rosa. C’erano i panni di mezza Milano: bianchi e colorati, stesi ad asciugare nei cortili o ammucchiati nelle ceste delle lavandaie.[…] Le chiatte arrivavano, i tram sferragliavano, i treni partivano e in mezzo c’erano ombrellai, lavandaie, musicanti  e perdigiorno”; il Naviglio e la Darsena, la Briosca, lo zoo, le Tre fontane. C’era Bombe e c’era l’ippopotamo, c’erano i fili di rame del telefono usati come corde per le chitarre e c’erano i monaci dell’abbazia di Chiaravalle che facevano a cazzotti con i preti di piazza Bologna.
La ballata ha note di malinconia, è la mancanza di un mondo dove c’era l’amore e la memoria, la solidarietà e l’amicizia. C’era la passione e c’erano le stragi. C’era persino il perdono. C’era la musica, che stordiva e che leniva, che faceva le sue battaglie e non si vendeva mai; c’era la musica pura, quella che non conosceva il vil denaro; c’era l’anima degli uomini. C’era l’umanità. C’era la giovinezza, magra e densa. C’era un dialetto viscerale e c’era la violenza.
Nella ballata c’è l’anima del Pelé, che sembra fare l’occhiolino a quella della poetessa, Alda Merini, che, come lui, ha cantato Milano, ma ora la città è “una grassa signora piena di inutili orpelli[1] . Pelé è in tutti i suoi ricordi. Pelé, al quale ora sua moglie Rosanna ricorda di fare l’insulina, è l’aedo di un mondo che non è più, di un sogno vissuto tra fiori e rovine, tra grappe, Negroni, il busto di Lenin sullo scaffale, il “bianchin sporco” e l’odore di minestra.
Non resta che cantare per un’altra emozione; rubare una zolletta di zucchero da tuffare nel caffè e lasciare che una donna rimanga sveglia ad aspettare ancora un po’.
La scrittura di Roberto Farina è come il lievito madre, trascina l’anima in un impasto che ora travolge, ora carezza, ora commuove, ora fa tremare. Roberto Farina è scrittore di eleganza rara: carismatico, impetuoso. In ogni sua opera c’è un turgore nuovo, simile a quello delle gemme che, a primavera, si approntano ad esplodere. Raffinato e ingordo di Suburra; anarchico, come la libertà; sensuale, come un tango lontano, che è vampa di sperma e di nostalgia.
 La ballata del Pelé è la sintesi di un gusto tutto “fariniano” per le cose belle: è impreziosito dalle illustrazioni di Elfo, dalle fotografie dell’archivio personale di Pelé, dal ritratto del Pinza di Erik Scheller, da saggi e interviste di chi c’era e da un cd registrato al Ligera tra il novembre del 2017 e il gennaio del 2018.
Un romanzo, un saggio, uno spaccato di storia contemporanea, appassionatamente vissuto, amorosamente cantato.
Francesca Aurelio


[1] Alda Merini, Canto Milano, 2007