mercoledì 5 agosto 2020

Letture di giugno e luglio

M. Nucci, Achille e Odisseo. La ferocia e l'inganno, Einaudi

La penna di Nucci è fedele a se stessa e riconoscibilissima: chi ha letto Le lacrime degli eroi e L'abisso di Eros sa che Nucci è promessa di scrittura altissima.

Questo libro è a metà strada tra il romanzo e il saggio e, allora, si sogna, si impara,  ci si conferma nell'estasi dell'innamoramento: Achille resta sempre il leone e Odisseo non può che essere il polpo. A pagina 87, ho pianto:"La fragilità degli eroi. Perché non esiste uomo realizzato che non si sia misurato con le proprie debolezze. Al punto che si potrebbe stabilire una legge che agli appassionati di supereroi e agli illusi dell’invincibilità degli antichi personaggi mitici potrebbe risultare completamente indigesta. Solo chi conosce le proprie debolezze può dirsi uomo. Solo chi è davvero pronto alla sconfitta può ambire all’espressione completa della propria umanità: l’eroismo”.


G. Montefoschi,  Desiderio, La nave di Teseo

Nel bel mezzo di relazioni disciplinari, relazioni coordinate di classe, giudizi e numeri,  volevo un romanzo leggero, che mi distraesse: mi sono ritrovata a leggere Desiderio.

Trama un po' obsoleta: l'amore che sopravvive a tutto e che si intreccia a gelosie, dolori, malattia, ossessione della malattia.  Bugie, radici, traumi. Buon romanzo, scritto in una bella lingua italiana, ma troppi personaggi. Roma splende ovunque. Il passaggio più bello è a pagina 153: “Avrebbe voluto dirle che l’amava, non aveva smesso neppure un giorno d’amarla, era stato il suo unico amore; che gli anni nei quali erano stati lontani potevano cancellarli in un istante; che la sofferenza atroce dalla quale era stato annichilito, pure quella era sparita, non esisteva più; che gli occhiali lo avevano commosso, tutto lo commuoveva di lei: le calze tirate, i tacchi alti, i meravigliosi occhi neri, le labbra dischiuse che spasimava di baciare per ritrovare il sapore che non aveva dimenticato mai; che lo avrebbe fatto immediatamente, se non ci fossero stati quei ragazzini con le biciclette, le mamme con le carrozzine, i passanti, ma che era bello pure così: non pensare a nulla, stare vicini…”.


 

G.Ritsos, Bianche macule sopra il bianco, Torri del vento.

Ghiannis Ritsos è monumentale, in tutto ciò che Egli è e ha scritto. Quando mi è capitato per la prima volta di leggere una sua poesia mi trovavo ad Atene, era il 2015, cercavo notizie sul teatro che avevo appena visto sulla strada che percorrevo, mentre aspetto la mia moussakà in una taberna e mi imbatto su internet in una poesia: c'è chi naviga poi ci sono io avvezza ai naufragi. 
La poesia era tratta Erotica e così creduto che si trattasse di un “amoroso” e, poiché ingabbiata in un amore senza capo né coda e poiché tutto mi sentivo tranne che adulta, volli leggere Erotica e feci l'ordine su Amazon, così al mio entro in Italia avrei trovato il libro a casa. Questo per dire che tutte le più grandi passioni nascono nell’assoluta incoscienza. Erotica non era che la punta di un iceberg bollente fatto di mitologia, di resistenza, di amore per gli altri, di dolore, ma soprattutto di una tale potenza di esistere che mi ha guarita da tutte quelle pochezza nelle quali quotidianamente mi imbrigliavo. Nel 2016 mi sono dovuta di colpo inventare adulta, ho smesso di essere figlia, ho conosciuto la morte e lì, ancora una volta, Ritsos è stato la catena che mi ha tenuta stretta all’esistenza. Ho letto tutto ciò che di Ritsos è stato tradotto in italiano: sono certa che con Ritsos, appena mi sentirò pronta, imparerò il neogreco.

Intanto quest’estate, due nuove pubblicazioni di Ritsos (oramai le sue opere sono per lo più introvabili!) hanno arricchito la mia anima: la prima è proprio BIANCHE MACULE SOPRA IL BIANCO. Si tratta di 110 poesie tradotte da M. Caracausi.

Ci sono gli oggetti di Ritsos, c’è il suo sguardo che placa il mondo, c’è il dolore che tace e la pace naturale, c’è il bianco che acceca, il bianco che accoglie, il bianco che vomita la tempesta. C’è l’amore, c’è la morte. C’è la bellezza.

Dentro i miei sogni
sempre tu,
con una bicicletta,
con un albero,
con lo specchio.
Togliti una buona volta
dai capelli
questa rosa.
Io
inchiodo le mie carte
con una stella
perché non me le porti via il vento
”.




G. Ritsos, Molto tardi nella notte, Crocetti editore

Opera capolavoro, ultima raccolta di Ritsos, composta tra il 1987 e il 1989 a Samo.

È la raccolta più cupa di Ritsos, una sorta di “appressamento della morte”, ma anche una specie di lascito dell’essenziale. La traduzione di Nicola Crocetti è strepitosa, musicale, aspra e dolce al tempo stesso.

È la poesia delle “Assenze”:


Bella donna silenziosa, dall’incedere lento,
avvolta nella porpora della sera
tra due pavoni dalle code aperte.
Fuori della porta, le grandi galosce infangate
del guardaboschi. E sopra le alberature
occhieggia una piccola luna balbuziente.
Ora dovrai parlare tu al suo posto,
ma le parole mancano a poesie già dette
.

E’ il luogo dell’oblio (Oh, anni infantili dimenticati,/anni senza sospetti, ipnotizzati dal bel sole/ tra due miracoli ignoti. Il grande libro/ era chiuso sulla sedia di paglia del giardino).

È la poesia del tempo, delle rivoluzioni lontane, della tristezza sottratta all’uomo dai giorni d’estate:
Un’altra estate
Questi bei giorni di sole sottraggono ogni argomento alla tristezza.
Baluginano le case calcinate sparse sulla collina verde.
Ecco, anche un cavallo rosso nella piana. Ma erano veri
quella ragazza nel campo di granturco e quel ragazzo
nell’oro del meriggio che faceva segno al battello di passaggio
con l’asciugamano da bagno. Eri vero
anche tu che credevi alla musica e non avevi niente di tuo
se non quello che donavi, e forse quello che donerai ancora
.
(Karlovasi, 25.VII.87)

L’ultima estate
Dicono addio i colori dei tramonti. È tempo di preparare
le tre valigie-i libri, le carte, le camicie-
e non scordare quella veste rosa che ti stava così bene
anche se d’inverno non la indosserai. Io,
nei pochi giorni che ancora ci restano, riguarderò
i versi scritti in luglio e agosto,
anche se temo di non avere aggiunto niente, semmai
di avere sottratto molto, poiché da ess traspare
l’oscuro sospetto che questa estate
con le sue cicale, i suoi alberi, il mare,
coi fischi delle navi nei tramonti gloriosi,
coi barcaioli sotto i balconi al chiar di luna
e con la sua misericordia ipocrita, sarà l’ultima.

(Karlovasi, 3.IX.89)

È la poesia della lenta stanchezza, degli addii. Ed è sintesi straordinaria della produzione di Ritsos. È l’opera aspettata da anni, cercata, introvabile. È carne, sangue e spirito. Ritsos andrebbe ASCOLTATO in tutte le scuole del creato, insieme al battito del proprio cuore.

 


V. Perrin, Cambiare l’acqua ai fiori, edizioni e/o

Romanzo femminile, storia di una madre-Violette- e di una figlia –Leonine; storia del più grande dei dolori, della forza di ricominciare; storia di una casa davanti ad un cimitero, più viva di qualunque altro luogo.
Romanzo sul senso di esistere che va cercato nella quotidiana cura di un giardino sacro, sul senso dell’amicizia profonda, della passione che devasta, delle vite cominciate storte da raddrizzare.

La salvezza viene dal mare. E così ogni risposta.

Non aggiungo altro: solo che Sasha vorrei incontrarlo anch’io, un giorno o l’altro.

Questo romanzo lascia addosso una dolcezza che sa di “cannella”: sembra sia un best seller, meno male che non lo sapevo, forse non lo avrei scelto.


 

 

O. Kessel Pace, Scilla. Racconto mitologico, Città del Sole edizioni

È una “favoletta”. Semplice semplice. Per chi vuole conoscere il mito di Scilla e l’amore di Glauco. C’è qualche errore (reinterpretazione?) nella descrizione dell’isola di Eea, che pare popolatissima, in barba alla solitudine della maga Circe.
Meno male che si legge in un’ora scarsa.


 

S. Veronesi, Il colibrì, La nave di Teseo

Non leggo quasi mai “chi vince”, preferisco di gran lunga i “vinti”: questa volta ho approfittato delle vacanze e un altro romanzo ci stava nelle mie letture.

Il colibrì è una sequela di tragedie che consumano i giorni del dottor Marco Carrera; alle tragedie si aggiungono detti, non detti, famiglie solo apparentemente sane, profondamente segnate da incomprensioni, silenzi, omissioni, compromessi, sensi di colpa. C’è il grande, strano, muto, difficile triangolo Marco-Luisa-Giacomo (il fratello di Marco); c’è la morte di Irene, la follia di Marina e c’è, soprattutto, il rapporto esclusivo di Marco con sua figlia Adele, che mette al mondo Miraijin, poco prima di andarsene via per sempre. Finale struggente, con una morale di speranza: pur rimanendo APPARENTEMENTE fermi, si cambia e, nonostante dolori inenarrabili, c’è-e resta sempre- qualcosa di buono che può salvare il mondo. È un romanzo “strano”. Triste. Eppure pieno di luce.



                                                                 Francesca Aurelio

lunedì 3 agosto 2020

G. Norcia, A proposito di Elena, Vanda edizioni: una "fiaccola" che splende nelle notti d'estate.

Giuseppina Norcia è una garanzia: la sua è una scrittura che viene da “lontano”, da una lontananza fatta di sapienza, saggezza, amore ed elezione. Giuseppina Norcia è una creatura armoniosa, tra le cui mani scivolano sete d’Oriente e lini d’Occidente, nella cui voce c’è la grazia di una poetessa e la potenza oracolare di una profetessa sicana.


Dopo il suo Achille, “compagno di Thanathos”, non mi sarei mai aspettata Elena e, invece, ecco che, sorprendentemente, arriva colei della quale nessuno ha saputo dire “com’era fatta”: del resto, “Nessuno lo sa, perché nessuno l’ha mai guardata: bisognava adorarla come una dea o possederla come una femmina” e gli uomini la amavano “fino ad esserne terrorizzati”.

Con un incipit di tal genere, non si può che immergersi “dentro” l’incantesimo di Elena, del suo odore, che “si respira” anche se lei non c’è.

Di Elena non si sa niente. Crediamo di conoscerla, non l’abbiamo mai guardata”: è questo il paradosso, Elena, infatti, è la bellezza e la sciagura, è doppia, è carnefice e vittima, è fiamma d’amore, oggetto d’odio.

Elena è una maledizione, per sé e per gli altri: “tutti coloro che hanno desiderato Elena, intorno a lei hanno costruito un’ossessione consumata nella violenza, individuale e collettiva. Nella rovina”. Elena è Lolita, ma è anche vittima sacrificata; Elena è un corpo da espugnare come fosse una citta e, allora, sostiene l’autrice, “il sesso diviene un’esposizione del potere e della guerra”.

E’ maestra di seduzione Elena, come Aspasia, “con lo sguardo da cagna”, ma è figlia di Zeus, forse; oggetto di una contesa divina, è la vittoria amara della bellezza, una bellezza “mai detta”, che solo apparentemente vince, perché “la bellezza è divenuta una prigione” e “mantiene sempre un carico di dannazione”.

Elena è “fiaccola”, è la “splendente”, è la “luminosa”: “muove sulla terra i suoi passi, ma appartiene a un altro mondo” e, come “ogni angelo è tremendo”: “la chiamavano Elena, come una malattia, un cataclisma, come una sventura”.

Straordinarie le pagine in cui Elena “diventa” Alcibiade e Alcibiade “diventa” Elena: storia e mito si intrecciano e divengono vita “senza tempo”, in un gioco di “maschere” volto solo, come direbbe il conterraneo di Giuseppina Norcia, Luigi Pirandello, alla nudità.

La donna più bella e più pericolosa del mito e l’uomo più bello e pericoloso della storia si scambiano le maschere, nel segno del loro carisma, della conquista, della perdizione”: passi di una struggente meraviglia, che fanno a gara con le pagine dedicate all’Elena di Stesicoro, alle parole di Simone Weil.

La domanda resta però aperta: “Chi è Elena oggi?”. Non pare esserci altra risposta che quella di Giuseppina Norcia: “C’è una bellezza che salva e un’altra che irretisce. C’è una bellezza che libera e un’altra che intrappola dentro desideri irrefrenabili. E’ doppia, proprio come l’essere umano”.

E, quindi, Elena di Sparta, Elena di Troia, Elena premio di Afrodite, Elena figlia del cigno, altro non è che uno scintillante giorno di sole davanti al mare in tempesta, con la canicola, le cicale e i pini che trasudano linfa odorosa. Tale è anche la scrittura di Giuseppina Norcia: splendente. Seduce e porta nell’altrove di una donna piena di primavere plurali, lungo sentieri magnifici di coscienza di sé e dell’altro, nel comune destino di figli di Grecia venuti al mondo nella terra promessa: questa Magna Grecia sublime e dimenticata, folle e rovente come vampa d’agosto, che accoglie e non distrugge, che trema e spera, che ricorda e piange, che brilla.

                                                                                                          Francesca Aurelio


mercoledì 10 giugno 2020

R. Farina, Io per Bruno Brancher non ho mai pagato: un piccolo capolavoro pieno di refusi.





E’ un giorno d’un giugno di pioggia e marmellata. Ho appena finito di leggere l’ultima pubblicazione di Roberto Farina, Io per Bruno Brancher non ho mai pagato. Il mio umor cangiante, come queste mattine che “doveva essere estate e invece…”, d’improvviso ha subito una specie di mutazione genetica: avevo custodito per giorni il libro sul comodino, attendendo che la didattica a distanza e gli adempimenti di fine anno scolastico mi concedessero di concedermi il lusso di una tregua.
La tregua è arrivata e che tregua! Tre ore traboccanti dell’impetuosa giovinezza di un ladro scrittore che incontra fatidicamente “l’ultimo picaro” di nascita, “l’uomo delle biciclette gialle” di mestiere, il poeta per grazia ricevuta.
In realtà, come sempre accade per i libri di Farina, non si sa mai quale sia il limite tra romanzo, saggio, biografia: ciò che crea Roberto Farina sfida ogni definizione teorica ed esplora terreni di scrittura abitati dallo stupore, dalla seduzione, da quel desiderio di percorrere le sillabe con le mani, con gli occhi, con la bocca… Ad ogni sillaba conquistata, si entra in una sorta di turbamento che invade il tempo e la spazio e ti trascina nella dimensione smisurata di spaccati di vita dei quali poi è come se si avesse il sentore di aver fatto parte. E allora eri con Giandante che percorreva le vie impervie dei suoi volti, eri con Nori che sognava il pane bianco, eri con Gianca morso dal fuoco.
Questa volta il lettore è sopraffatto dai vent’anni travolgenti, avventurieri, di un irresistibile Roberto Farina, che si lancia, come il piè veloce Achille, nella sua giovinezza affamata di eterni oggi e, allora, ecco che Io per Bruno Brancher non ho mai pagato è un romanzo di formazione, un atto di gratitudine, un ricordo sublime, un dono che vuole denudare la bellezza.
Il libro si apre con un furto e una giustificazione: il ragazzotto milanese che ruba Tre monete d’oro e la descrizione di una passione della giovinezza, che è come un bicchiere d’acqua fresca sotto la calura: “Eravamo sorridenti, giovanissimi, con la coscienza tersa come un cielo d’estate sempre blu. Chi ha avuto questo mucchietto di cose tutte insieme sa di cosa parlo, quando dico che eravamo felici”, felici come i titani, perché “Anche Prometeo era un ladro”.
Quindi, Farina sfodera una vera pubertà della parola, una scrittura di entusiasmi, che si posa sulla pelle come lenzuola fresche alla controra. L’incontro con Bruno Brancher che “trottava colorato e smuoveva l’aria all’intorno”: sembrava “traboccare vitalità?”, si chiede il giovane Farina, e a quell’incontro sembra d’esserci stati.
Di Bruno viene fuori un ritratto strabiliante di “un monello pescato con le mani nella marmellata”, ma anche di un uomo dalla sofferenza indicibile: Bruno la vita se l’era ingoiata con tutte le sue spine, con tutti i suoi macigni e le sue disperazioni. Con ostinazione e testardo attaccamento.
Il carcere diventa per questo ladro balbuziente il luogo della trasformazione: “In carcere ti tolgono la libertà e ti danno la noia. Una noia mortale, disperata. […] Fu allora che imparai a scrivere, intendo dire a mettere a posto le sillabe per poi formare le parole e in seguito un pensiero, e poi incominciai a leggere, leggevo di tutto, dai fumetti a Tolstoj, quando non capivo qualche cosa, andavo a farmela spiegare da un laureato, ce ne sono tanti in carcere”.
La casa di Bruno era per Roberto un’alcova di misteri, che sapeva di  legno vecchio e tabacco” e nel cortile c’era un pesco a coronare la strana aura del luogo: “Quel pesco non scavalcava l’inverno, lo attraversava fiorendo”, esattamente come Bruno.
Via dei Cinquecento “brulicava di vita” ed è occasione di vedere la signora che salvava i fiori, Pilù, il vecchio che cantava la canzonetta del Balilla o l’Internazionale, i due del piano di sopra che fanno l’amore. Bruno osserva; Roberto lo asseconda e poi fantastica. Fanno un patto d’amore e il loro giuramento si inorgoglisce di Barbera, una manciata di noci e grana a cubetti.
A questo punto si è completamente sedotti: dalla vitalità di Brancher e dalla vitalità della parola di Farina, connubio senza fine bello. E a quella domanda-traboccare vitalità?- la risposta è affermativa.
 Quasi a metà racconto, eccoci a “L’orrendo misfatto”: un delitto d’amore raccontato con amore. Siamo a pagina 42 e si prova un misto di commozione, rabbia, rispetto, dolore, ma soprattutto si ricambia amore. Per il candore di un uomo che afferma: “Sono solo innamorato di Patrizia, che tiene solo trentadue anni meno di me”. “L’orrendo misfatto” gli costa un’atroce galera, divenuta educazione di sé a resistere: si sentiva braccato e cercava la solitudine, fino alla decisione di “non piangere più”; allora, durante la rivolta di Capodanno a San Vittore, Bruno con le Confessioni di Sant’Agostino in mano, pensa a Patrizia.
Poi le poesie di Ricky, il rapporto con Paz; l’offesa del Botolo, il furto delle poesie “del suo amato François Villon (che lui pronunciava con tre “L” ben scandite)”. Le amnesie, il cuore in mille pezzi, i ricordi d’infanzia, l’estate in Salento, Marcinelle. Milano, la Milano di Bruno, della sua Alda, di Ricky, di Roberto. Un finale che lascia senza fiato.
Cin, cin, Bruno! Scrivi, scrivi! Se Euridice è perduta, ci rimane il canto di Orfeo. Il poeta strappa il terreno alla morte. Il resto è grammatica! Salute, salute! Cin cin!”.
Per pagine così, ci si può vendere l’anima: Farina è come la luce del tramonto che sbatte sul marmo bianco di una scultura; non se ne può parlare. La si deve vivere. Farina è Prometeo. La sua scrittura è il fuoco. E il lettore è “un uomo che mangia pane” investito dalla grazia.
Io per Bruno Brancher non ho mai pagato è fecondo seme di giovinezza in un mondo che, ahimè, è ridotto a un pavimento di scadentissima graniglia graffiato da scarponi chiodati. Però è come se Medea, la tradita, fosse ascesa all’Olimpo e lo avesse trovato abitato da due divinità superstiti, immortali, libidinose, eccelse. Due soltanto.
E lei rinasce dopo lavacri sacri di poesia. Per stanare refusi. Per baciare in fronte quella giovinezza.

Francesca Aurelio

lunedì 11 novembre 2019

FUOCHI, UN POEMA EPICO DEI TEMPI NOSTRI


(Le Milieu, 2019)

A Chuck piaceva quando Edith era un po’ brilla. Sfogliò il libro,
 una vecchia monografia di Van Gogh.
“Annusa, Chuckie, su”.
Chuck affondò il naso tra le pagine. Sentì un odore dolce,
ma pungente. Gli ricordò il latte di mandorla.
“Buono, vero? E’ l’odore di colla” disse Edith.
R. Farina, Fuochi, 2019

Fuochi. Poi resta l’ardore. La vampa. Il rosso che penetra negli occhi. E attraversa le viscere più profonde, dove Fuochi è riconosciuto come materia affine. Dire di Fuochi significa fare appello ad un vocabolario che non esiste, perché si tratta di parlare di intimità. Ogni scintilla di Fuochi è un secreto di esistenza della quale ci si innamora; ogni ritratto che, tra queste pagine, prende vita è un monumento al miracolo umano. Non c’è nulla di carattere morale, non c’è nulla che abbia a che fare con qualsivoglia metro di giudizio. In questo libro ha preso dimora il profumo del guizzo umano, il fango creaturale che respira: la penna è una bacchetta magica e gioca con lo scintillare della storia, quella rimasta più in ombra, quella storia che è stata determinante e che si copre del velluto morbidissimo della dimenticanza.
Roberto Farina esercita sul lettore la fascinazione dei grandi classici ed è, nello stesso tempo, la novità, l’inaspettato, lo stupore.

Fuochi si apre con i brividi di Il Milite ignoto: l’orrore della guerra, che serpeggia nella quotidianità degli uomini semplici; la morte dei figli che si trasforma in una parata che sfila nella piazza. Restano le madri che non ritrovano i propri figli e che dinanzi alle statue celebrative, con voce spezzata dal dolore, esclamano: “Non somiglia per nulla al mio Bimbo”. Quindi la ballata del mostro: Kaspar Hauser, l’«enigma del proprio tempo», il punto di domanda della diversità che irrompe, si lascia mangiare dai tarli della curiosità e del timore, che strugge e lascia un che di amarissimo dentro: trattasi di un amaro che innamora.
E’ la volta di Robespierre: “E chi mai se l’aspettava?”, viene da dirsi dinanzi al genio del Terrore. Il suo “viso secco, nervoso eppure glaciale” si staglia dinanzi agli occhi del lettore con prepotenza e, alla fine del racconto, restano nelle intercapedini, tra capelli e neuroni, fiumi di sangue e mascelle distrutte.
Amatore Sciesa è un capolavoro: “Chi resta ha il dovere di agire, ma senza dimenticare l’universale forza dell’umano intelletto e della tenerezza”. Basterebbe questo passo per restarne incantati, come si resta incantati dinanzi ad un divano da riparare e alla morte dietro le spalle, all’odore di cuoio della sua giubba bagnata unito al profumo di lavanda di chi gli intima di parlare. E’ il racconto degli odori, dei suoni, di una bellezza che è magica.
Janusz Korczak, lo “scultore di anime”: pagine struggenti, emozionanti. Pavel resta nel cuore come un bambino che il lettore ha amato e perduto in prima persona; Henrik è un eroe. I capelli “vaporosi” di Stefa, soltanto immaginati, sono una fotografia meravigliosa, chiusa in un portagioie.
E’ la volta di Tommaso Campanella: “Mi basta leggere nel libro della natura, unica opera autografa di Dio”. Pagine ironiche, potentissime. La tenacia di Campanella viene fuori come un fiume dirompente: “Amate”. Il Campanella di Farina convince più di tutte le pagine di Reale. Viva la sincerità!
Egisto Rubini: un guru; a pagina 55 di Fuochi c’è un passo che rappacifica ogni donna col suo proprio essere: “Nel dire «rivoluzione» gli uomini sembrava intendessero «vendetta»m le donne «futuro»”. Dall’inizio alla fine del racconto, il lettore spera in un libro firmato Farina su Egisto Rubini. La fanciullezza di Egisto è un romanzo di formazione in piena regola, la sua ardimentosa giovinezza è un paradigma per le generazioni. In poche intense pagine, tutto l’onore dell’uomo, fino alla  morte gloriosa dell’eroe. Come Achille. La bella morte. L’amore di libertà.
Camille Claudel: Camille è meravigliosa; Camille è l’inganno, il tranello teso dal destino. E’ Medea che arriva a Corinto e beve tradimenti; è utero che ama, è generosa follia. Camille è arte e la sua vita sembra una stazione della Via Crucis. E’ “l’agnello condotto al macello”, ma è anche la giovinezza amorosissima.
Un uomo-Roberto Farina-che traccia così bene i rivoli di sangue dell’anima di una donna è una specie di prodigio. Qui ci si infervora di Camille e di Roberto. Irresistibilmente. Segue l’incontenibile Etty Hillesum: in lei trovano sintesi la tenerezza e lo stupore dell’autore. E del lettore. Etty è la grazia. Roberto l’ha resa un fiore. Immortale.
Nicola Sacco: freddo lungo la schiena. Il vento, fuori, tira forte, come nei giorni di tempesta invernale, ma lo stridore di denti non lo genera il vento.
Nicola Sacco è un eroe epico, con la morte addosso sin dalla passeggiata con Giuseppe alla grande quercia. Nonostante i “1700 volts”, la sua Idea penetra sotto la pelle ora come allora, come sarà domani. “Natura e buon senso” e poi umanità elevata all’ennesima potenza: nessun ritratto di Nicola Sacco, che tanto ho amato nella mia adolescenza disubbidiente, è efficace come questo di Farina. E Dante, con le sue piantine, resterà sempre il seme orgoglioso di Nicola e della sua Rosa: mi si perdonino le mie romanticherie di ragazzina!
Bartolomeo Vanzetti: indomito, coraggioso, leale. Amico e sodale. Compagno. Sognatore. Il sogno, appunto, e la trofallassi sono due espedienti letterari che rendono il Vanzetti di Farina indimenticabile.
Buster Keaton: finale da oscar. Dai sogni alla morte è un frullo d’ali. Nel mezzo c’è un asse d’equilibrio sul quale danzare. Nel volto un guizzo di malinconia e uno di incoscienza; un peso dentro gli occhi e il silenzio sulle labbra. Un funambolo buffo e tremante. Avvolto di delirio: forse con Houdini, quella sera, come per magia, se n’è partita l’infanzia di Buster e l’unica eredità che quella gli ha lasciato è il sogno di brillare. Per sempre.
Jean Vigo è come un sacerdote. Ha attraversato l’esistenza con gli stessi occhi di un indovino, che scrutano oltre le barricate della realtà. Oltre le intemperie del destino. Oltre.
Jean Vigo è il più poetico dei ritratti forse. L’incontro con Lydu è purissima lirica. Lo scontro con i collegiali è poesia epica. La sua vita è la comparsa che diventa chiave di volta dei suoi film.  
Leggere Fuochi è un continuo arricchirsi. Sembra il caveau di Paperon de’ Paperoni; è acqua di fonte. E’ cinema.
Kathe Kollwitz: “A me interessa la bellezza del proletariato. La larghezza delle loro vite”; “Invecchierò, perderò questo desiderio che sento: sensazioni, partecipazione e amore scompariranno. Tu invece, ora, qui, tu fecondi la mia femminilità, tu mi doni completezza. Tu mi rendi felice”: ecco qui Roberto Farina che scrive intingendo nel sangue mestruale la sua penna e rende Kathe un sigillo sull’anima. La sua voglia, la sua femminilità, la sua maternità rotonda e disperata. La sua appartenenza. L’arte come fuga dal male e forma di salvezza. Non ha salvato nessuno Kathe. Ma ha salvato la donna.
Vincent Van Gogh: racconto onirico. E’ un fiore nella cui coppa zampilla ogni sfumatura della vita, con tutte le sue stagioni.
Il Vincent fariniano è un vinto che si brilla con uno splendore carnivoro. E’ bellissimo. E’ carnale. E’ mistero doloroso e gaudioso insieme.
Milena Jesenska, nell’immaginario collettivo, è la Milena delle lettere di Kafka: questo racconto restituisce Milena a Milena e a tutti.
E’ appassionata, erotica, straordinaria, bellissima, cinematografica. Milena è come la sua pioggia. E’ come Praga, è come la morfina.
Milena è fierezza e non dolore. E’ un ricamo sulla pelle che supera anche la morte. Milena è l’intelligenza femminile. E’ il rifiuto dell’ingiustizia. E’ il discernimento. E’ l’amore e il coraggio ed è il coraggio dell’amore.
Il Guy de Maupassant firmato Roberto Farina è la resa dei conti. Rende giustizia a Guy e, quasi, induce a perdonare la follia che invade l’anima e la rende indifesa. “Il mare… è leale”: ciò che da dimensione al mondo è la poesia. Quella di Farina è prosa poetica, irrefrenabile, sacra: Fuochi è il tabernacolo nel quale è custodito il santissimo sacramento della Filantropia.
Giuseppe Grandi: “La rivolta è femmina”; “Nunca des imperadur”: il Nan riempie di sbigottimento. Il leone, l’aquila, ma soprattutto l’ostinazione di chi l’Arte la rispetta e ne fa religione.
Jack London: invincibile amore per questo ritratto, per la libertà di un uomo che ha riscattato la crudeltà delle madri con la generosità.
Fedor Dostoevsckij: “Che cosa vi proponete di fare con la vostra opera, giovanotto?”
“Mettere in romanzo l’anima, signora Panaev.”
“Ma l’anima non esiste.”
“In tal caso la inventerò io”.
Insopportabilmente meraviglioso.
“Questo è vivere: essere uomini tra gli uomini e restarlo sempre, in nessuna sventura avvilirsi o perdersi d’animo, ora lo so una volta per tutte”: riecheggia l’Homo sum di Terenzio ed è, da sempre, questo il sogno dei santi e dei poeti. Il “mio” Fedor è e resterà sempre quello di “Le notti bianche”, il “mio”indimenticabile compagno di ventura di “Memorie del sottosuolo”. In questo racconto c’è forse il passaggio più bello di Fuochi: l’indimenticabile ultimo capoverso di pagina 192.
Luis Bunuel,  Hey, non l’ammazzi più?”: battuta sublime che rende tutto il senso del racconto. L’amarezza, una decina di grammi di nostalgia, diversi etti di sogni realizzati, di visioni divenute concretezza e nessun cenno mai alla ragione. La ragione è fredda, Bunuel è una lama di ferro arroventata.
Harry Miles: “Non tutto è perduto”.
Dashiell Hammettimparò subito a considerare la solitudine come una manifestazione dell’età adulta”; Dash dai “capelli stupendi”, come li definisce Lillian Hellman: ecco, ancora una volta, il cuore di donna e le mani di uomo di Roberto Farina.
Sante Pollastro e la sensualità irripetibile della giovinezza. E’ come se l’autore, qui, non avesse mai varcato la soglia che porta oltre l’adolescenza dei sudori, delle voglie, delle corse e degli spudoratissimi pudori. L’irruenza dei sensi di un uomo leggendario che nessuno mai saprebbe immaginare. Dopo la sparatoria, la fuga, e, dopo essere diventato una “spina nel fianco del governo fascista”, l’amore di Mariette, la desiderata: “La guardava in un modo strano, c’era desiderio, ma anche rabbia”.
Il finale è amaro: la mitezza, dopo la rivoluzione. La rivoluzione era un sogno. Solitario.
Giovanni Pesce: “La nostra libertà consiste nel decidere che cosa fare di quello che la vita ha fatto di noi”. Il proprio credo, la via da vivere pienamente. Le scelte. Radicali. La resistenza come seconda pelle. Il sacrificio vissuto come un sacerdozio. La libertà-reale- come unica religione possibile: ecco Visone nel ritratto della sua giovinezza gloriosa.
Blaise Cendrars: la verità che trabocca, la cenere in agguato. “La solitudine che aveva il sapore di una liberazione”. L’arte. E ancora la vita.
Antonia Pozzi: un capolavoro. Una bufera di giovinezza, uno scirocco impetuoso in piena primavera; niente che sia stato scritto su Antonia Pozzi (e tanta roba ho letto!) è equiparabile a tale ritratto. Non c’è alcuna “invasione”: Roberto Farina ha restituito alla vita ciò che della vita si era incrinato. Antonia allora diventa un ricamo di “letizia”, un virgulto di “vitalità”, un inno di gioia. Un abbraccio. Lei era e resta un bacio d’adolescenza mai vinta, una martire dello stato di grazia della giovinezza e davanti a ciò “ogni amarezza svanì”.
Paul Gaugin è l’urgenza di somigliare a se stessi. Di sentirsi al proprio posto. Oltre. Al di là. Di ogni ostacolo della morale. “Difendete la vostra libertà” e, ancora, “L’amore è una complicazione del piacere. Guardatevi dall’amore”. Il maestro Gaugin ha fatto scintillare Haiti della sua luce: “Gaugin è morto. Ora non c’è più nessuno qui”.
La banda Bonnot: il dialogo tra Renè e Dondon è meraviglioso. Il “duello” finale degno di fragorosissimi applausi. Renè e Octave nella fossa comune restano immortali.
Siamo scherzi di luce”: l’intensità vitale di Medardo Rosso trascina. Sembra di averlo davanti ai propri occhi mentre scherza con la luce di Maurice o spadella cantando da Carrà. E’ una straordinaria icona della follia della natura. E’ un godurioso approccio all’essere. Non v’è nulla di austero nell’arte. L’arte è l’anarchia della gioia. Le pagine su Medardo Rosso sono una musica.
Claudia Ruggerini sapeva bene quanto le sarebbe costato scegliere la libertà. La storia è entrata violentissimamente in casa sua e lei ha scelto d’essere giusta.
Amilcare Cipriani è un poeta: la famiglia sacrificata alla rivoluzione, l’eroismo, la paura. l’innamoramento? “Figlio mio, che cosa ne hai fatto della tua gioventù?”.
Onorina Brambilla: la comunista, la partigiana. La ragazza del Pane Bianco, amata da Visone, senza tregua. Nell’immaginario della lettrice è il paradigma di un verbo irregolare: non si scorda mai.
Giancarlo Bugetti è l’uomo del fuoco, l’inossidabile Giancarlino. La tempra del toscanaccio, l’altruista, il generoso, il consapevole: “L’uomo non sa gestire il fuoco, non c’è niente da fare”.
Chuck Wepner: “Ho capito che resistere è un mestiere come un altro. Si impara”. Con Chuckie la lettrice ha intrapreso una storia d’amore. Perché Chuckie le ha spiegato perché leggere è una forma di resistenza. E perché Chuckie ha trovato in Edith la sua motivazione a resistere. Edith si porta sulla pelle la morte e da continuamente respiro alla vita.
Così le passioni del cielo precipitano sulla terra”: Michael Collins, l’uomo rimasto solo come Dio. Un uomo. Fuochi si chiude con una bonus track dedicata a una ninfa marina: Dita Parlo, la paladina del no; la creatura-bellissima-del coraggio.

Fuochi è tutto questo. Ma è soprattutto ciò che lascia al lettore: è un’eredità. E’ un libro di storia, è un monumento al futuro. E’ un’opera d’arte. Farina è scrittore raffinato, sopraffino. E’ una penna miracolosa e rituale. E’ la rugiada sulla lingua riarsa. E’ la carezza della seta in un campo minato. Fuochi ha un odore buono: sa di muschio e di verbena e se ne sente un che di agrumato gioire come nota di coda. Ha una consistenza assai particolare: è un oggetto sacro. E’ come uno scrigno. Ma porta con sé, oltre alla sorpresa, anche il calore di uno scialle da indossare dinanzi al mare. E’ un libro coraggioso: è il più coraggioso dei libri di Farina, perché è un “libro rosso”.
Fuochi è un alambicco: distilla libertà e te la fa bere fino a lasciare che ti bruci. Fuochi è un libro rischiosissimo: se si ha il coraggio di lasciarsene infiammare, poi è come se il proprio respiro diventasse incenso per libagioni divine.
Le illustrazioni sono strabilianti.
Fuochi mi ha insegnato la lentezza della lettura: i libri di Farina si fagocitano, non prevedono pause. Fuochi invece va lasciato decantare. Va gustato. Come si gusta novembre.
Francesca Aurelio


sabato 10 agosto 2019

Altre letture estive


B. Schlink, Il lettore –Neri Pozza

Storia toccante. Alcune pagine sfiorano la poesia, tanto che ci si sente limitati nel dover leggere il romanzo in traduzione e nasce il desiderio di conoscere il tedesco. Nasce come una storia di amore proibito e inenarrabile tra il quindicenne Michael Berg e la più che trentenne Hanna Schmitz: una passione travolgente che è anche un’educazione sentimentale per entrambi. Michael fa i conti con la sua adolescenza, Hanna con le sue paure e un suo terribile segreto. I momenti più struggenti sono quelli in cui, dopo l’amore, Michael legge per Hanna. L’idillio si incrina però. Hanna sparisce. Michael continua i suoi studi: per un seminario della facoltà di legge dovrà seguire un processo a cinque ufficiali donne delle SS responsabili di una strage avvenuta subito dopo la fuga da Auschwitz, in una chiesa. Il finale è una strozzatura: l’imperdonabile Hanna è la prosopopea della disperazione, eppure Michael, in qualche modo, continuerà a leggere per lei sempre. Hanna, infine, imparerà a…
Da leggere e meditare. Lascia “Il lettore” innamorato e stordito.
C’è un errore che lascia l’amaro in bocca: a pagina 79 è tradotto “Da quanDo tempo abitava nell’appartamento”. Dio salvi la grammatica. 



R. Bespaloff, Sull’Iliade – Adelphi
Lettura piacevolissima, che si apre con dolorose pagine di raffronto tra Achille, “l’eroe della vendetta”, secondo la Bespaloff, ed Ettore, “l’eroe della resistenza”. “I destini di Achille e di Ettore sono accomunati nella lotta, nella morte e nell’immortalità”, sostiene la Bespaloff, per la quale “teatro dell’ineluttabile è simultaneamente il cuore dell’uomo e il Cosmo”.
Delicatissime le pagine su Teti e Achille, entrambi, in diverso modo, figli del mare. Achille allora è “come una pianta sul declivio di un vigneto”, che Teti non ha potuto rendere immortale. E allora egli è l’eroe più umano di tutti, perché, nel momento in cui Achille viene al mondo, la morte è dentro di lui, è la sua più terribile e più fedele compagna di viaggio e con lui, “umano, troppo umano”, non lo dimentichiamo mai, neanche per un attimo. Ha un solo folle amore, Achille, sia pur tra tanti amori: è Patroclo, colui che moltiplica all’infinito l’amore quanto la morte.
Le pagine della Bespaloff fanno di Achille soprattutto l’eroe dell’impeto: “Achille è il gioco della guerra, la gioia di saccheggiare città troppo ricche, la voluttà dell’ira […], il clamore dei trionfi inutili, delle imprese folli. Senza Achille, l’umanità vivrebbe in pace”. Non sono d’accordo. Achille è l’eroe umano, preda dell’ira, preda dell’amore, trionfo della morte. Ad Achille io perdono tutto, chè Achille ha pianto poesia e mi ha insegnato a vincere la disperazione con il canto.
Dinanzi all’immagine di Achille che si consola suonando la cetra gli si perdona tutta l’ira, perché Agamennone il capriccioso ha mandato a morire gli Achei e tra loro l’irresistibile Patroclo.
Quindi la riflessione su Elena, sugli dei, su Troia, sulla guerra: “La guerra è inseparabile dalla giovinezza dei corpi che seduce per poi annientare”.
“Il pasto di Priamo e Achille” è un capitolo strepitoso: Achille è l’Uccisore “carico di infanzia e di morte”, ma non dimentica mai, neanche per un attimo, Patroclo e, quando restituisce il corpo di Ettore e prende il riscatto, che Priamo gli offre, promette a Patroclo la sua parte, scusandosi per l’ira placata.
L’ultima parte è dedicato al rapporto tra la Bibbia e l’Iliade, accomunate da “un certo modo di dire la verità, di proclamare la giustizia, di cercare Dio, di onorare l’uomo”. Lettura meritevole di attenzione e partecipazione. Scrittura magnifica.


M. Atwood, Il canto di Penelope – Ponte alle Grazie
Scorrevole e semplice. Prosa limpida e inappuntabile. Penelope resta Penelope, ma dei suoi sentimenti, a volte, ci si dimentica: Il canto di Penelope è un memento di ciò che lei ha sentito e vissuto, patito e tessuto, mai all’ombra dell’eroe, ma con lui e soprattutto senza di lui, autonomamente.
Penelope è figlia di Icario, re di Sparta, fratello di Tindaro, che era-neanche a dirlo- il marito di Leda, dal cui grembo nacquero i Dioscuri, Clitemnestra ed Elena.
Penelope ed Elena, le cugine spartane, colei che aspetta e colei che fugge. Penelope, che tutti, da bambina, chiamavano “Anatroccola”, ed Elena, la luce della bellezza divina, in realtà, non tindaride, ma figlia di Zeus, che, in forma di cigno, aveva fecondato Leda.
Amore e delusione si impastano nella natura del rapporto di Penelope col figlio Telemaco; amore e attesa in quello con Odisseo.
Inadeguatezza nei confronti della nutrice, la vecchia Euriclea, che aveva allattato ai suoi capezzoli Odisseo; opposizione da parte della suocera Anticlea: perché Penelope arriva ad Itaca bambina e da bambina sempre sarà trattata.
Gli intermezzi corali-il coro è formato dalle ancelle di Penelope- sono gustosissimi, ironici, a volte esilaranti:
Ma al mattino ci svegliamo,
pronte ognuna al suo dovere;
e le gonne solleviamo
per quei cazzi di imbroglioni.
Penelope ora è nell’Ade e può ripercorrere la sua vita senza remore né rimorsi: è umana e, come l’acqua, ovunque penetra.



      A.    Camilleri, Ora dimmi di te. Lettera a Matilda –Bompiani.
Si tratta di una lettera che il bisnonno Andrea scrive a Matilda, che non ha compiuto ancora quattro anni. Andrea scrive “a pochi giorni dal (suo) novantaduesimo compleanno” e spera che Matilda possa leggere questa magnifica storia della sua famiglia, dell’Italia, del sogno europeo “nel pieno della (sua) giovinezza”.
Camilleri ripercorre la sua vita, racconta i suoi sogni, la sua ostinazione, il suo adolescente fervore politico, i suoi insuccessi, ciò che è stato mera fortuna, ciò che è stato conquistato con sacrificio. Ha parole d’amore pieno, forte, maturo, totale per Rosetta e per la scrittura, che era gioco e sfogo, divertissement e dono e poi è diventata più di cento romanzi.
Magnifico l’addio, lento, dolcissimo, al padre.
Non riesco a dire di più: il rischio è di sciuparne la bellezza.
Va letto. E custodito dentro.
Magnifico. Sublime. Semplice. Complesso.
La lezione di un Maestro.
Il testamento di un Padre.
La fierezza di un Comunista.
Per me, che sono solo un’insegnante, sarà, questa lettera, anche uno strumento didattico importantissimo per la visione del Novecento che in essa abita.



R. Vecchioni, La vita che si ama. Storie di felicità – Einaudi.
Il Professore non si smentisce mai. Ogni sua parola è sensualità, come quando l’onda lascia la sua saliva sopra i fogli e poi, dopo diverse stagioni, ne senti il profumo e ne cogli i segni lasciati lì… dal mare.
“La vita che si ama” è un romanzo, è un’autobiografia, è poesia, è una serie di ritratti indimenticabili.
“La vita che si ama” è la conquista del tempo che non esiste, è la canzone del kairòs. E’ l’amore e il suo senso: “una primavera di passi e sorrisi ignara di trascinare i sensi e il cuore”. E’ il rifugio, il ritorno. La partenza. E’ la scuola.
E’ la Casa. La goffaggine. E’ i figli. Gli incontri. E’ la vita di un uomo e delle sue letterature.
E’ il gusto di un infinito interiore. Della storia lontana.
Dei padri che giocano d’azzardo con il cuore e delle madri che non se ne vanno mai.
Vecchioni è un affabulatore impareggiabile. Un grande attore. Un profondo enigmatico sciamano. Un ruffiano. E’ quello che mi fa pensare “Vorrei parlare come lui” e poi mi accorgo che la mia Saffo è la sua stessa bellissima sacerdotessa.
E questo la dice tutta. Proprio tutta.
Consiglio questo libro a chi sa resistere. A chi poeticamente vive…



                                                                                                                              Francesca Aurelio

mercoledì 17 luglio 2019

Leggere è amare

L'idea di questo blog è nata una sera a Milano, in cui un mio amato amico mi istigò a parlare di mitologia, dopo che spendemmo una bellissima passeggiata da casa di Riccardo al ristorante, durante la quale gli raccontai di Medea, Didone e Circe. Piero è sempre convincente. Così... iniziai. Un blog però richiede costanza... e io non sono costante. Richiede ordine... e io non sono ordinata. Perciò, di tanto in tanto, tra una password persa e un'altra ritrovata, le recensioni che, generalmente, scrivo sotto la copertina dei miei libri, la riporto qui... quando mi va, quando sento che qualche consiglio di lettura non guasti, quando spero che qualcuno si innamori di libri che per me sono indimenticabili. Oggi è morto Andrea Camilleri, non è certo una buona occasione per dire che uno degli ultimi suoi libri che ho letto è Conversazione su Tiresia, edito da Sellerio. Un piccolo gioiello scritto e interpretato dall'autore al Teatro Greco di Siracusa lo scorso anno. Una citazione vale come testamento perenne: "E così mi ritrovai cieco, indovino e in grado di vivere un tempo praticamente infinito". Lo vivrà questo tempo infinito Camilleri, perchè ogni suo scritto, ogni sua parola, merita di appartenere all'eternità.


Questo mese di luglio 2019 è per me veramente vacanza, nel senso più antico del termine: riposo, otium, "scholè", come direbbe Socrate e mai come quest'anno sento che la vacanza vacante è meritata. Ovviamente non potevo che affidarmi totalmente e completamente alla lettura: ovunque, tra letto e spiaggia, divano e panchina all'ombra delle fresche frasche e dunque ecco le mie letture di luglio:
Matteo Nucci, L’abisso di Eros-Seduzione (Ponte alle Grazie)
Un saggio, un romanzo, duecentocinquanta pagine di ricca, ricchissima goduria. La penna di Nucci è strabiliante: leggere questo SCRITTORE è come essere avvolti da ambrosia.  L’abisso di Eros è un viaggio attraverso la seduzione, gli aphrodisia, l’eros e l’Eros: da Omero ad Esiodo, a Socrate e Platone; da Pericle, ad Aspasia, ad Alcibiade. Da Saffo ad Anacreonte. Ma soprattutto da Elena a Menelao, a Paride; da Achille e Patroclo, ad Ares e Afrodite; dalla vergogna al canto, dalla natura alla dismisura, dal Vortice a Pan. Dall’amore, alla disperazione, alla bellezza. La BELLEZZA della quale nutrirsi. Sempre. Accedendo al suo regno conturbante, che porta ad altezze sublimi: la Grecità, in ogni sua forma, verbo, luminosità.


Matteo Nucci, Le lacrime degli eroi.
Uno dei libri più belli letti negli ultimi dieci anni. Un inno alla fragilità, che non è debolezza, ma vis creaturale; un ritorno alla radice, un riconoscersi veri, di carne, sangue e lacrime: chè poi le lacrime sono della stessa sostanza della vita. AION: parola d’ordine, password per tutto ciò che di prodigioso abita l’uomo. E l’uomo è albergo e alcova, ricettacolo e altare del dio dentro, della brama, dell’ira, dell’arrendevolezza. Tra tutti spicca lui, Achille, il figlio del mare. E ancora una volta si resta innamorati. Della materia, della trama delle parole, di Nucci stesso, grande sacerdote che profetizza arcane voglie e inenarrabili desideri.


Madeline Miller, Circe.
Circe, la figlia del Sole; Circe, la ribelle; Circe, la strana. Circe, la dea.
Non è bellissima, come le altre dee, una più straordinaria dell’altra. La sorella Pasifae la maltratta, i capelli cisposi di Circe fanno innervosire la dea Bianca, che non le risparmia insulti e risate sarcastiche e pungenti; i modi selvatici di Circe fanno ridere anche il fratello Perse, che invece ama profondamente e segretamente Pasifae. Tra i titani giunge voce che Prometeo è stato punito da Zeus, che si è autoaccusato, che non ha voluto, pur avendo potuto, nascondere di aver consegnato il fuoco agli uomini. Circe è attratta dal titano e si avvicina a lui, ne vede il sangue sacro sparso sul pavimento dorato, ne sente il dolore, lo osserva, curiosa, e non rivela a nessuno, se non al fratello Eeta di aver sentito il bisogno di portargli conforto.
Circe, la selvatica; Circe, la domatrice; Circe, la folle. Circe, la maga. I suoi intrugli, i suoi misteri, le sue trasformazioni, i suoi amori: Glauco, il pescatore, trasformato in un essere immortale; Glauco, l’immortale traditore, che a Circe, ben presto, preferisce Scilla. E Scilla non ama, Scilla ama piacere, ama essere lusingata: Scilla fa perdere la testa a Glauco e Circe impazzisce di gelosia. Con la linfa dei fiori germogliati dal sangue di Crono e che hanno il potere di trasformare chiunque in chi è davvero, Circe trasforma Scilla in un terribile mostro. Questa metamorfosi le costerà l’esilio nell’isola di Eea. La sua compagna fedele è una leonessa, i visitatori li trasforma in porci; si arrampica a piedi nudi sulle alture di Eea, scopre le proprietà delle piante, doma gli animali più feroci. L’esilio è per l’eternità, ma giunge Hermes e Circe deve correre a Creta, dove la sorella Pasifae, sposa del re Minosse, sta per partorire. A Creta vive anche Dedalo, dal quale la dea resta affascinata. Pasifae ha bisogno degli incantesimi di Circe, perché sta dando alla luce un mostro, il Minotauro.
A Creta è anche la giovane Arianna.
Finchè giunge sulle rive dell’isola una nave: è quella di Odisseo.
L’eroe le lascerà in grembo Telegono, “colui che è nato lontano”, ma ripartirà alla volta di Itaca. La gravidanza della dea Circe è una lotta, la nascita del bambino una guerra.
Un finale strepitoso. La Miller di La canzone di Achille non si tradisce in Circe. Romanzo spettacolare. Cinematografico. Piacevolissimo. Viene voglia di essere vento per passare attraverso i capelli scarmigliati di Circe e sentire il profumo di sangue e magia che ella emana, per farsene sedurre, per lasciarsene incantare.



Marco Missiroli, Fedeltà.
Una magnifica sorpresa, un bel romanzo. Letto in un pomeriggio. Una storia di anime che si mettono alla prova. Amori concreti, amori nati, amori abortiti. Tenerezze; fiducia. Resistenza. Uno spaccato di esistenza, in una Milano che si fa poesia. Un uomo a metà, una donna di profonde solitudini, sia pur ballerine. Un ragazzo bellissimo e cupo, una ragazza che strega Carlo di una stregoneria sensuale e tenera insieme. Avevo letto di Missiroli Atti osceni in luogo privato, ma Fedeltà mi ha stupita. Ottima penna. Moderna. Meno male che non ha vinto lo Strega: così questo romanzo si farà da sé, chè si farà.


Valeria Perrella, Almarina.

Un successo forse per molti. Io non ne sono uscita entusiasta. Un romanzo breve. Storia intensa. Scrittura che ho apprezzato in alcune parti, in altre ho trovato luoghi stucchevoli e affatto necessari. E’ come se il romanzo mi si fosse rivelato diviso in due parti: la prima parte più lenta, la seconda interessante, indaga l’anima della Professoressa Maiorano che si specchia in Almarina e, inadeguatezza e timore nonostante, diventano insieme bellissime. La cesura è a pag.60, più o meno. Punteggiatura per me incoerente.


Cristina Dell’Acqua, Una SPA per l’anima.
Raramente mi è capitato di non terminare una lettura. In questo caso, proprio non ci sono riuscita. Scontato, noioso, di maniera. 17 euro spesi malissimo. Assolutamente illeggibile per me. Si presenta fin da subito lentissimo. A pagina 47, dopo il terzo capitolo, il cui titolo è oltremodo attraente “La formula della giovinezza di Sofocle. Emone o la saggezza di un figlio”, ho sentito dentro una specie di strana repulsione e ho mollato. Magari lo riprenderò in un momento in cui soffrirò meno il caldo. Chissà. 



mercoledì 14 novembre 2018

Il regalo di Nicola nel giorno del SUO compleanno.


La musica di Nicola Gelo è un raggio di luce in novembre: penetra dalle persiane chiuse di un io sdrucito e scalda mani fredde. E dimenticanze. E’ un trionfo di pace che viene a rannicchiarsi nel cuore, un tepore inaspettato, una levità di fanciullesca natura. E’ una vaghezza che avvolge, come il velo di una vergine che danza su pozzanghere profonde con le sue scarpine di raso.


E, nella Vallée du silence di Nicola Gelo, le voci delle stagioni, degli astri, dei vivi, dei morti, degli sciamani e degli dei si intersecano in un turbine dorato che innalza e redime, che vince il dolore e fa del fango creaturale materia di un’armonia in cui l’universo tutto si compiace. La musica di Nicola è intimità, è sympatheia, è “secreto” interiore, è liquido amniotico ove la salvezza è possibile. 
La musica di Nicola è esercizio di gentilezza, è quintessenza di generosità. Pioggia che purifica e ingravida deserti aridi. E’ carezza. E’docilità. E’ la ninnananna a Persefone che scopre l’amore. Rasserena il turbamento dell’adolescenza folle sui cui petali sono appena passati polpastrelli sinuosi. 
Le corde dei suoi pianoforti sono percosse dai martelletti della sua dismisura di poeta: è la giostra del divenire che diventa sintesi di un ordine supremo, archetipico. Feroce, dolcissimo. Abissale, come il volto supremo di Ade quando il sole rinnova le ore. E il mare diventa “del colore del vino”. 


Vallée du Silence