venerdì 24 giugno 2016

La notte di San Giovanni o del Sol invictus






La notte di san Giovanni è una danza. E' la celebrazione del Sole invictus, invincibile. E' notte di streghe e misteri. E' la notte della rugiada e delle felci che fioriscono per un attimo soltanto. E' la notte di chi vuole amare; di chi coglie lavanda per la purificazione e di chi accende fuochi per battere i piedi nudi sulla pancia della terra e sentirne i palpiti audaci. E' la notte delle femmine folli; delle maghe che si inghirlandano il cuore; è la notte dei campi di grano che esplodono all'alba nei giochi di luce e del mare che lambisce la pietra e accoglie le fiumare. E' la notte dei lupi che leccano la fronte alle vergini e di Salomè che si pente del delitto di un tempo. 
Vorrei avere le mani delle donne antiche, per la divinazione, per libare sulle tombe sacre e carezzare nel vento il volto di Dio. Per custodire le lucciole: che restino accese stanotte! Sono le anime di chi non trova ancora pace e vagano per cercare la strada.

Medea era figlia del sole, nei suoi talismani mesceva erbe e sangue infuocato: è da lei che si deve imparare; la maga herbaria stanotte renderà ancora immortali i suoi nati e intreccerà mirti ed incensi, con germogli bluastri di menta e profumato ginepro. E' sempre stata straniera, anche nella sua terra: Medea è di natura lontana; ora piange i suoi padri, cerca le strade maestre; trova acre sentore di morte e bucrani lungo il cammino: non c'è vigoria di fertili zolle. Eppure restano le parole d'amore. E le braccia che, un tempo, le cinsero i fianchi.
Un tuono, un tremare di cielo: le nonne raccontano che Erodiade e Salomè gridano, dannate, e le loro voci giungono dall'alto.
"Mamma, perchè me lo chiedesti?"
"Figlia, perchè l'hai fatto?"







domenica 10 gennaio 2016

Appendice a Clitennestra (O del mostro, della dannata, della dimenticanza).

J. Collier, Dopo il delitto, 1882

Tutto gli avevo dato e l’ho ripreso.
Perché a volte le donne scelgono.

Non avevo scelto mai. Fui figlia
emarginata della madre che partorì
al Cigno l’Elena malfida. Che generò
a Zeus i gemelli. Ho attraversato
il bosco dei pioppi e la triste prateria
degli asfodeli; sono giunta alla sinistra
del palazzo di Ade: Persefone si agita
nell’Erebo senza uscite e alla Fonte
dell’Oblio mi accingo a dissetarmi.
All’ombra del bianco cipresso
attendo le ultime risposte: arriveranno
quando io avrò dimenticato le domande.

Il mio petto dilaniato dalla giustizia
del figlio smetterà di sanguinare:
io no. Sanguinerò sempre
nella dimora di ciò che non è più.

Agamennone, lo sposo che mi uccise
il figlio di Pelope nel grembo,
immolò anche Ifigenia per la sua gloria,
per il rogo di Troia innocente. Lo attesi.
Come si aspettano i vincitori.
Come Penelope sospirò Odisseo
che tardava. Invocai i fuochi sulle alture:
annuncio del suo ingresso in Micene.
Approntai le stanze. La sala del bagno
fu l’altare innalzato alla vendetta
ristoratrice: non era vestito né nudo,
non era sazio né a digiuno, non era…
nella Casa né fuori. Non era in acqua
e neanche sulla terraferma. Egisto,
il misero compagno delle notti amare,
sferzò i colpi mortali: io impugnai
l’ascia bipenne per esibire la testa
del tiranno, ma non come la Baccante
il figlio. Consapevole di andare
a morte certa: Giustizia, la dea
senza madre e senza marito,
la dea del maschio
offenda pure la sua stessa natura!

Stragi e infamie, violento mostro fui:
in corpo di donna regale. Figlia
di fortuna: di sorte efferata, sanguinaria.

Ho goduto del sangue nero dell’uomo
che un tempo amai; il suo talamo
ho fatto caldo e prospero di figli:
sperma che non ha mai saputo
il bilico uteroso di una donna
che era madre. Privata dei suoi parti.

Privata della mia dignità:
Cassandra gridava la grande sciagura,
io fui soltanto Mano. L’assassino
della più volte violata
figlia di Priamo, trascinata in terra
greca-quale civiltà!- fu lui,
fu Agamennone. Sicario oscuro
di vergini, di figlie, di venti, di tempeste.
Sicario delle mie malevoglie:
virgulto prepotente di una malarazza.

Berrò. La sorgente sgorga, come sangue
santo: le mie mani sono coppa
per l’unguento delle mie storture.
Clitemnestra, la cagna, va dove nulla
più è pena. Tutto è Vuoto. Il delirio tace.
Le mani sono monde. Immonda
resterà la memoria della colei
che fu femmina degenere, non avvezza
alla paura, avida di sangue
e morbo per le sue creature morte.

Il clitoride non fu vessillo mai.
…Era tormento.

Ho scelto.

CLITENNESTRA


E la pietra imperterrita – vomitava sempre più sangue. 
G.Ritsos, Quarta dimensione, La casa morta. 

Iniziare un viaggio con Clitennestra è prendere per mano la sciagura di venire al mondo e penetrare le intercapedini di una inspiegabile forza che devasta e non si arresta mai. Ce n’è sempre di più ed è sempre più incontrollabile. Chi era Clitennestra? Era figlia di Tindaro e Leda. I suoi fratelli erano Castore e Polluce, erano forti, fortissimi. Erano eroi. Sua sorella era Elena. E tutto quanto le vesti di Elena hanno lambito è stato sporcato di sangue. Dal sangue non poteva certo esimersi Clitennestra: bellissima, certo, eppure non bella come la più bella di Grecia, non bella come colei per la quale si combatte la guerra che ha visto morire più eroi di sempre. Bella, sì, Clitennestra. Ma non come Elena. Nel destino di Clitennestra c’erano i Pelopidi, i discendenti tremendi di Pelope, il mitico re dal quale aveva preso nome il Peloponneso. In prime nozze Clitennestra aveva sposato Tantalo, figlio di Pelope appunto, ucciso da Agamennone, che ne era il nipote. Quindi Agamennone prese in sposa Clitennestra: dalla loro unione terribile nacquero quattro figli. La prima era Elettra, la figlia disperata, colei che ama il padre sopra ogni cosa e odia più di ogni cosa la madre, che le strappa la sua felicità e la mortifica, dando in sposa la principessa ad un contadino: si vendicherà Elettra e la sua vendetta sarà ferale; c’è Crisotemi [1], la silenziosa, questa figlia che porta l’oro nel nome , resta fuori da tutto ciò che accade a Micene, lei guarda, indifesa certo, ma non si lascia coinvolgere da una maledizione che non vuole ascoltare; la terzogenita è Ifigenia, la fanciulla ingannata da un padre che si spoglia della sua paternità e vuole essere capo, in una “civiltà della vergogna”[2]  che altrimenti avrebbe fatto di Agamennone l’eroe un vigliacco. C’è, infine, Oreste: il figlio mandato via, il figlio temuto da Clitennestra; il figlio che torna per vendicare suo padre. Mentre Agamennone, da dieci anni combatteva a Troia per colpa di Elena, Clitennestra, rimasta a Micene, aveva preso ad amarsi con Egisto: era, quest’ultimo, cugino di Agamennone, che con gli Atridi[3] aveva un conto in sospeso. Dopo in sacrificio di Ifigenia, fatta arrivare in Aulide, ove la flotta greca era ferma per mancanza di venti favorevoli, con l’inganno (avrebbe dovuto sposare Achille), Clitennestra ordisce la più atroce delle vendette: inventa la pyrsèia, ossia la catena di falò, che doveva annunciarle il ritorno di Agamennone, il quale, giunto a Micene, viene ucciso dal pugnale di Clitennestra, mentre è caduto nella rete di Egisto, nelle sale del bagno. “Sangue chiama sangue” e la morte di Agamennone dev’essere purificata: sulla tomba del padre si reca Elettra, vestita a lutto, per le libagioni: invoca, nel pianto disperato, il ritorno di Oreste, l’unico che può riportare l’Ordine a Micene. E Oreste torna: va al palazzo e la madre trema. 

 Κλυταιμνήστρα
τί δ᾽ ἐστὶ χρῆμα; τίνα βοὴν ἵστης δόμοις;
 Οἰκέτης
τὸν ζῶντα καίνειν τοὺς τεθνηκότας λέγω.
Κλυταιμνήστρα
οἲ ᾽γώ. ξυνῆκα τοὔπος ἐξ αἰνιγμάτων.
δόλοις ὀλούμεθ᾽, ὥσπερ οὖν ἐκτείναμεν.
δοίη τις ἀνδροκμῆτα πέλεκυν ὡς τάχος•
εἰδῶμεν εἰ νικῶμεν, ἢ νικώμεθα•
 ἐνταῦθα γὰρ δὴ τοῦδ᾽ ἀφικόμην κακοῦ.
Ὀρέστης
σὲ καὶ ματεύω• τῷδε δ᾽ ἀρκούντως ἔχει.
Κλυταιμνήστρα
οἲ ᾽γώ. τέθνηκας, φίλτατ᾽ Αἰγίσθου βία.
Ὀρέστης
φιλεῖς τὸν ἄνδρα; τοιγὰρ ἐν ταὐτῷ τάφῳ
κείσῃ• θανόντα δ᾽ οὔτι μὴ προδῷς ποτε.
 Κλυταιμνήστρα
ἐπίσχες, ὦ παῖ, τόνδε δ᾽ αἴδεσαι, τέκνον,
μαστόν, πρὸς ᾧ σὺ πολλὰ δὴ βρίζων ἅμα
οὔλοισιν ἐξήμελξας εὐτραφὲς γάλα.
Ὀρέστης
Πυλάδη τί δράσω; μητέρ᾽ αἰδεσθῶ κτανεῖν;
Πυλάδης
ποῦ δὴ τὰ λοιπὰ Λοξίου μαντεύματα
 τὰ πυθόχρηστα, πιστὰ δ᾽ εὐορκώματα;
ἅπαντας ἐχθροὺς τῶν θεῶν ἡγοῦ πλέον.
Ὀρέστης
κρίνω σὲ νικᾶν, καὶ παραινεῖς μοι καλῶς.
ἕπου, πρὸς αὐτὸν τόνδε σὲ σφάξαι θέλω.
καὶ ζῶντα γάρ νιν κρείσσον᾽ ἡγήσω πατρός•
 τούτῳ θανοῦσα ξυγκάθευδ᾽, ἐπεὶ φιλεῖς
τὸν ἄνδρα τοῦτον, ὃν δ᾽ ἐχρῆν φιλεῖν στυγεῖς.
Κλυταιμνήστρα
ἐγώ σ᾽ ἔθρεψα, σὺν δὲ γηράναι θέλω.
Ὀρέστης
πατροκτονοῦσα γὰρ ξυνοικήσεις ἐμοί;
Κλυταιμνήστρα
ἡ Μοῖρα τούτων, ὦ τέκνον, παραιτία.
 Ὀρέστης
καὶ τόνδε τοίνυν Μοῖρ᾽ ἐπόρσυνεν μόρον.
Κλυταιμνήστρα
οὐδὲν σεβίζῃ γενεθλίους ἀράς, τέκνον;
Ὀρέστης
τεκοῦσα γάρ μ᾽ ἔῤῥιψας ἐς τὸ δυστυχές.
Κλυταιμνήστρα
οὔτοι σ᾽ ἀπέῤῥιψ᾽ εἰς δόμους δορυξένους.
Ὀρέστης
αἰκῶς ἐπράθην ὢν ἐλευθέρου πατρός.
 Κλυταιμνήστρα
 ποῦ δῆθ᾽ ὁ τῖμος, ὅντιν᾽ ἀντεδεξάμην;
Ὀρέστης
αἰσχύνομαί σοι τοῦτ᾽ ὀνειδίσαι σαφῶς.
Κλυταιμνήστρα
μὴ ἀλλ᾽ εἴφ᾽ ὁμοίως καὶ πατρὸς τοῦ σοῦ μάτας.
Ὀρέστης
μὴ ᾽λεγχε τὸν πονοῦντ᾽ ἔσω καθημένη.
Κλυταιμνήστρα
ἄλγος γυναιξὶν ἀνδρὸς εἴργεσθαι, τέκνον.
 Ὀρέστης
 τρέφει δέ γ᾽ ἀνδρὸς μόχθος ἡμένας ἔσω.
Κλυταιμνήστρα
κτενεῖν ἔοικας, ὦ τέκνον, τὴν μητέρα.
Ὀρέστης
σύ τοι σεαυτήν, οὐκ ἐγώ, κατακτενεῖς.
Κλυταιμνήστρα
ὅρα, φύλαξαι μητρὸς ἐγκότους κύνας.
Ὀρέστης
τὰς τοῦ πατρὸς δὲ πῶς φύγω, παρεὶς τάδε;
 Κλυταιμνήστρα
ἔοικα θρηνεῖν ζῶσα πρὸς τύμβον μάτην.
Ὀρέστης
πατρὸς γὰρ αἶσα τόνδε σοὐρίζει μόρον.
Κλυταιμνήστρα
οἲ ᾽γὼ τεκοῦσα τόνδ᾽ ὄφιν ἐθρεψάμην.
ἦ κάρτα μάντις οὑξ ὀνειράτων φόβος.
Ὀρέστης
ἔκανες ὃν οὐ χρῆν, καὶ τὸ μὴ χρεὼν πάθε.

 Eschilo, Coefore, vv. 885-930 


Clitennestra:
Cosa accade? Che grida innalzi nella casa?
Servo:
Dico che i morti uccidono colui che vive.
Clitennestra:
Ahimè! Parli per enigmi, ma ho capito.
Ci aspettano inganni, come noi ingannammo.
Datemi, fate in fretta, un’ascia assassina,
vediamo se vinciamo o siamo vinti!
Sono giunta ormai a questa sciagura.
Oreste:
Voglio te. Lui ha pagato il suo debito.
Clitennestra:
Ahime! Sei morto: vita amatissima di Egisto!
Oreste:
Ami quest’uomo? Giacerai nella sua stessa tomba:
non lascerai più costui nella morte!
Clitennestra:
Fermati, figlio! Abbi pietà di questo seno,
figlio, dal quale tu molte volte, dormendo,
succhiasti dolce latte con voracità.
Oreste:
Cosa farò, Pilade? Devo avere pietà della madre?
Pilade:
Che fine hanno fatto i magici oracoli di Apollo
pronunciati dalla Pizia e i sacri giuramenti?
Abbi tutti come nemici, non gli dei!
Oreste:
Hai ragione, mi consigli bene.
Seguimi, ti sgozzerò presso di lui.
Mentre era vivo lo hai considerato migliore del padre;
giacerai, morendo, con lui, poiché ami
 quest’uomo e odi chi avresti dovuto amare.
Clitennestra:
Io ti nutrii, voglio invecchiare con te!
Oreste:
Dovrebbe stare con me chi uccise mio padre?
Clitennestra:
Il destino, figlio mio, fu causa di tutto.
Oreste:
E il destino, ora, ti assegna questa sorte!
Clitennestra:
Non ignorare le preghiere di chi ti ha generato, figlio!
Oreste:
Generandomi, mi hai scagliato nel male.
Clitennestra:
Gettarti nel male in case amiche?
Oreste:
Fui venduto due volte, io che nacqui libero.
Clitennestra:
E quale guadagno, quale, ne ebbi?
Oreste:
Mi vergogno persino a ricordartelo apertamente!
Clitennestra:
Ma su, elenca anche le colpe di tuo padre!
Oreste:
Tu, al sicuro in casa, non vomitare veleno su chi opera.
Clitennestra:
E’ un dolore per le donne che il marito sia lontano, figlio.
Oreste:
L’opera dell’uomo nutre chi se ne sta al sicuro, in casa.
Clitennestra:
Figlio, vuoi uccidere tua madre?
Oreste:
Tu hai ucciso te stessa, non io.
Clitennestra:
Temi le furie rabbiose di tua madre!
Oreste:
Fuggo quelle del padre, se ti risparmio?
Clitennestra:
Viva presso la mia tomba piango il mio destino.
Oreste:
Il destino di mio padre ti ha portata a questo.
Clitennestra:
Ahimè, ho generato e nutrito un verme!
Ben fu profeta il terrore dei sogni.
Oreste:
Hai ucciso chi non dovevi e ora ne paghi lo scotto.[4]


Micene, Porta dei Leoni, giugno 2015



 Clitennestra è morta. Oreste ha vendicato suo padre, uccidendo colei che lo ha partorito. Tra gli ulivi e i melograni che cingono l’altura di Micene, di notte, quando anche le stelle si spengono e la luna è nuova, le urla di Clitennestra si sentono ancora e fanno da controcanto al latrare dei cani. La sua tomba è una prigione: alla sua destra c’è il tumulo di Egisto, alla sua sinistra, più ampio, il letto di morte di Agamennone. A volgere lo sguardo verso l’alto, c’è una muraglia: la Porta dei Leoni troneggia: tra le case e i segreti di Micene, se si percuote, a piedi scalzi, quella terra battuta, si sente addosso il veleno dei serpenti e la bava delle lumache, i capelli restano impigliati nella ragnatela e gli occhi si gonfiano per la gramigna che vi germoglia. Micene è oro e morte. Per sempre.


Micene, giugno 2015


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[1] χρυσός in greco antico significa oro
[2] E.R. Dodds, I greci e l’irrazionale. In questo magnifico saggio, il grecista Dodds distingue la“civiltà della vergogna”, che è sostanzialmente la civiltà omerica, quella in cui l’eroe è tale solo se riconosciuto dagli altri e “civiltà della colpa”, la società in cui l’uomo scopre la coscienza e da essa si fa guidare, basti pensare a quel frammento di Archiloco, in cui il poeta dice che non è “vergognoso”-appunto- abbandonare lo scudo e salvare la propria vita: questo in una civiltà come quella omerica sarebbe stato un gesto di imperdonabile pusillanimità. E, si sa, all’eroe non si addice la paura.
[3] Agamennone e Menelao, figli di Atreo, che aveva ucciso i fratelli di Egisto, quand’erano piccoli, e li aveva dati in pasto a Tieste, il loro padre, che aveva offeso il fratello, seducendone la moglie Erope.[4] Traduzione F.Aurelio

sabato 9 gennaio 2016

Grecità al singolare femminile. Perchè nasce La Donna e il Mostro nel Mito.

di Francesca Aurelio

Sono una donna. Non conta l'età. Non conta dove e perchè sono. Conta solo che io sia. Ho sempre creduto che la forma più sincera dell'essere umano sia quella che egli ama. Amare è non soltanto essere se stessi, ma è soprattutto essere la parte migliore di sè e sentirsi a proprio agio, mentre essa splende. Mi sono chiesta, molte volte, in quale luogo e in quale forma splendesse la parte migliore di me e, soprattutto, in quale luogo di me io mi senta a mio agio. La risposta è sempre stata limpida: la mitologia, la letteratura, l'arte greche. Tutto quello che io chiamo Grecità al singolare femminile. E' lì che mi cerco, nei frammenti, nelle varianti, nella colpa, nella redenzione, nella stirpe, nella radice e nella purificazione, nel canto e nel pianto, nella culla e nella tomba, nel canto nuziale e nell'esecuzione del capro. Tutto ciò che siamo è fermato, per sempre, nelle istantanee irresistibili del mito. 
Questa fantasmagoria ho voluto chiamarla La Donna e il Mostro perchè sono le fascinazioni più irresistibili del creato. E dalla donna e dal mostro farneticheremo sull'uomo. 

Non ho pretese di insegnamento, il mio scopo è imparare. Se qualcosa di pedagogico c'è in quest'idea è assai "terra terra": il fiore della gioventù ginnasiale potrà avere qui un luogo nel quale scorazzare tra una Clitennestra arrabbiata e una Medea ferita, tra un Achille che piange e un Odisseo che fugge via.
Semplicemente. Per innamorarsi. Chè per l'amore c'è tempo.

Buon viaggio!