sabato 24 febbraio 2018

Lettura di Febbraio: Giuseppina Norcia, L'ultima notte di Achille (Castelvecchi, 2018)




Ci sono libri che rivelano, che cambiano il nostro modo di guardare fuori dalla finestra, che ci portano ad un dialogo interiore con noi stessi, che consentono un percorso accidentato dell’anima e, proprio per questo, colmo di fascino e di incantamento: uno di questi libri è certamente L’ultima notte di Achille, di Giuseppina Norcia. L’autrice è  siracusana: la sua “siracusanità” è in ogni fibra del suo essere donna magnogreca, avvezza alla forza tanto quanto alla bellezza, ha sulla pelle quel profumo che soltanto il sud emana e negli occhi quella canicola siciliana che punge lo spirito e l’immaginazione. La stessa “siracusanità” abita le sue parole: L’ultima notte di Achille è un romanzo viscerale, è il racconto ancestrale dell’uomo che nasce e che nasce insieme alla morte, non mostro, ma compagna di ventura.
Il “figlio del mare” è raccontato da una voce narrante d’eccezione: Thanatos, Morte. L’ultima notte di Achille è l’occasione per Thanatos di ripercorrere, parlando sommessamente all’orecchio del figlio di Teti, la vita di un eroe che diventa, nelle pagine della Norcia, un Cristo ante litteram: egli si immola, perché si compia il suo destino.

 Ad Achille, del resto, la morte vuol bene da sempre: eppure questo indissolubile quanto inesorabile amore si esplicita nella continua lotta contro la paura, una paura ambivalente, umanissima per Achille e divina per sua madre: entrambi lottano contro un destino ineluttabile. Entrambi sono figure titaniche: sanno, da sempre, quali scelte bisogna  fare e quali ne saranno le incontrovertibili conseguenze.
E’ il romanzo  di una metamorfosi dolorosa, di un divenire altro da sé che logora, di un mutare la pelle che diventa estenuante. E allora l’amore per Deidamia, dopo la metamorfosi di Sciro, rivela la realtà: Achille torna ad essere se stesso e questo sarà un ulteriore passo verso la morte necessaria, che è la Verità che egli si porta addosso. Quindi Patroclo: l’uomo della vita di Achille, l’amore oltre i sensi, oltre i nervi, oltre ogni confine; quando si ritrovano, dopo il soggiorno obbligato di Achille a Sciro, voluto da sua madre, per preservarlo dalla guerra, l’eroe avrebbe voluto abbracciare il suo diletto, ma ha timore di farlo: “Avresti abbracciato il suo corpo nudo, disperatamente, avresti voluto che il tuo amico ti tenesse stretto a sé fino a farti male, ma provasti pudore per quel desiderio ancora indecifrabile, temendo che lui potesse ritrarsi o respingerti”.
Parte Achille, si reca a rimaner principe per sempre: lui non sarà mai re, come Peleo o Priamo, che sono vegliardi, lontani, per gli anni e per le distanze, da questo eroe che trabocca di umanissimo sentire: in Aulide è furioso, non può comprendere il padre che immola sua figlia, tutto il suo essere è nel sangue di Ifigenia, tutta la sua pietà è per Clitemnestra, che tiene tra le braccia, come se fosse sua madre stessa, mentre la figlia muore.
Ancora la morte. Sempre la morte. Gli abita accanto, mentre gli sta dentro, fin da quando gli strappò un capello d’oro, mentre Teti lo immergeva, in fasce, nelle acque dello Stige: ma l’antidoto al veleno della morte per Achille è stato l’amore sempre, quell’amore che lo ha condotto poi alla sua stessa pira infuocata. 

La narrazione della Norcia raggiunge altezze epiche, tragiche, liriche e queste ultime, forse, sono la nota dominante di tutta la sua scrittura: la prosa poetica di Giusi Norcia regala pagine indimenticabili, passaggi che si imprimono nell’anima e restano lì, come regali, come le lampare all’orizzonte nelle notti senza luna, come sogni, come “unico fiore in mezzo alla tempesta”. E’ il caso dei passi formidabili sull’amore per Patroclo: “Prendesti allora le sue braccia e te le stringesti intorno, con forza, e in quell’abbraccio sentisti per la prima volta di aver trovato casa. 

Ti inebriò il suo odore di rosa e di oliva, mentre sentivi i suoi capelli scendere sciolti sul tuo collo. Il vostro respiro mutò, senza paure, senza remore, nelle poche parole prima del silenzio, nelle carezze di Patroclo sulle tue labbra, sul petto, sui tuoi fianchi duri, nella sua bocca che proseguiva ciò che le mani avevano iniziato. 
Quell’ultima notte in Aulide dormiste in spiaggia sotto la prua di una nave nera, aggrappati l’uno all’altro come naufraghi. Il soffio dei venti, finalmente liberi, faceva fremere i vostri corpi caldi, sudati, sfiancati come dopo una lotta. Il tempo era giunto, ormai”. 

Dopo un altrettanto lirico intermezzo di Thanatos, gli eroi vanno alla guerra: Achille esita ancora tra la vita e la gloria, ma il suo destino “è sempre stato uno solo”; un’ultima trasformazione: Patroclo indossa le armi di Achille, diventa l’altro Achille e va a morire, portandosi con lui l’amore, la vita di quell’umanissimo figlio divino che piange e trema e compatisce; che si adira e muore.

Il romanzo di Giuseppina Norcia è come un lampo che illumina a giorno le notti più cupe: è travolgente come certe pagine antiche, è sapiente, salino; è come il vento che viene dal mare e porta l’odore della salsedine, ti resta addosso; è come quel punto dove l’orizzonte si perde e l’essere umano piange la sua terra lontana, sapendo che vi ha già fatto ritorno. L’ultima notte di Achille è uno dei romanzi più belli che io abbia letto negli ultimi tempi: avrei voluto durasse ancora a lungo, che mi accompagnasse per altre notti ed altri sentieri ancora; le pagine sono finite, ma le parole della Norcia restano. Impresse. Dentro. Con la sensualità del verbo dei sacerdoti, degli indovini e dei poeti.

Francesca Aurelio


lunedì 12 febbraio 2018

LIBRI DI GENNAIO



Mentre febbraio si appresta già a passare dalle variopinte danze carnascialesche alla contrizione quaresimale e il clima sembra piuttosto “marzeggiare”, passando da giornate di flessuosa primavera a venti furiosi e pioggia greve, tiro le somme delle mie letture del primo mese dell’anno. Con una mia amichetta di nove anni, Sofia, assai spesso amiamo raccontarci i libri che andiamo leggendo: ieri ci siamo accorte che non lo facevamo da un po’ e così ho fatto mente locale sulle mie letture di gennaio e, tra una spulciata e l’altra alla “solita” poesia serale, che è l’addio al giorno che passa e la captatio benevolentiae che rivolgo agli dei per la notte che viene (del resto, una sera all’Hotel Roma a Siracusa, Piera mi esortò a non addormentarmi mai senza prima aver letto una poesia: da allora, anche se non riesco a dormire, due versi, pure tre, me li concedo sempre), questo è stato il mese dei “libri rossi”.
Il mio incidentato 2018 l’ho aperto con Annie Ernaux, Memoria di ragazza: è il racconto dell’estate del 1958 di A, è l’estate delle scoperte, l’estate in cui la ragazza di paese, di una famiglia modesta, va a lavorare in una colonia estiva e lì incontra (accoglie) e si scontra con la realtà. L’adolescenza finisce, ma non si trasforma in età adulta. A si trova in una sospensione che è tanto struggente quanto dolorosa e che diventa il perno di tanta vita vissuta in un certo modo proprio perché A ha bevuto tutto intero il calice di quell’estate del ’58. “Ci sono esseri che sono sommersi dalla realtà degli altri, dal loro modo di parlare, accavallare le gambe, accendere una sigaretta. Invischiati nella presenza degli altri. Un giorno, o piuttosto una notte, sono trascinati nel desiderio e nella volontà di un unico Altro. Ciò che credevano di essere scompare. Si dissolvono, e guardano il proprio riflesso agire, obbedire, trascinati nel corso sconosciuto delle cose. Sono sempre in ritardo sull’Altro, sulla sua volontà costantemente avanti di una mossa. Una volontà che non raggiungono mai”: il libro inizia così e questa corsa a perdifiato per raggiungere l’irraggiungibile affanna per tutto il racconto e diventa una misterioso affanno verso la fine di un’epoca per A, che è l’epoca di ogni donna. E’ un libro per femmine, che ogni maschio dovrebbe leggere: è un romanzo su ciò che lascia chi va via con quella superficialità che è una botta in pieno viso e un rasoio che graffia l’anima; è un romanzo pieno di quella verità dalla quale non si guarisce quasi mai. E’ gonfio di timidezze e di “una femminilità ostentata e intoccabile” che è cresciuta a pane e Secondo sesso di Simone de Beauvoir : è colmo di quella necessità di ricostruirsi e di rigenerarsi che solo chi sanguina, come la luna, ha il coraggio di portare a compimento. Scrittura limpida, a tratti feroce, lirica a volte. A mi ha fatto tenerezza e mi ha fatta arrabbiare. Poi non volevo lasciarla. Quando è così, vuol dire che il libro merita d’essere letto.
Il 25 gennaio è uscito per Feltrinelli La Splendente di Cesare Sinatti: l’autore è giovanissimo e scrive luminosamente. E’ un romanzo sugli eroi di Omero, sulle figlie di Tindaro, sulla prole di Atreo. E’ un film, in realtà. L’ho trovato magnifico. Profondo conoscitore di Omero e della tragedia, fantastico narratore. Ho iniziato a leggere questo libro con qualche pregiudizio: mi aspettavo pagine un po’ noiose su argomenti triti e ritriti per chi, come me, considera la letteratura greca la summa di tutto ciò che è santo e bello e pieno di grazia; invece, è stato magnifico ricredermi. E’ una narrazione gustosa, leggera, profondissima; è indagine dentro; è scoperta; è curiosità. E’ persino sfida: “Vediamo come l’ha raccontata questa!”, andavo dicendomi.
“Coloro in cui la fiamma della vita ardeva con più forza si consumavano per primi”: come non caderci dentro? e, allora, di Agamennone hai persino pietà; Menelao ti intenerisce il cuore; Tersite lo prenderesti a sberle pure tu; Patroclo resterà sempre il tuo più bell’amore; ti assolvi di amare tanto i latrati di Clitemnestra e non provi più quel pizzico di invidia per quella bellezza maledetta di Elena, che tanto ha fatto patire. Achille, be’, Achille resta sempre lì, ha quel posto nel tuo cuore che occupa da sempre: Achille è la tua fragilità, la tua paura; Achille canta sempre e tutte le note del suo cuore resteranno per l’eternità tra il carapace della sua magnifica lira e il blu del cielo di Grecia che ti percuote l’anima e, pure, l’accarezza. Sinatti scrive: “I Greci sono eterni bambini”: sì. Lo sono. Perché in loro troveremo sempre quella δεινότης irresistibile che tiene in bilico tra ciò che è tremendo e la meraviglia. 
L’epilogo di Sinatti è il vento di un pomeriggio d’estate che gonfia una tenda d’organza, mentre nella penombra di una stanza rovente si consuma una sensualità liquida…e profumata. 

 Libro da 10 e lode: i classicisti che lo snobbano sono invidiosi e non lo vogliono dire!