Ogni volta che si apre
un libro di Roberto Farina, dopo i primi capoversi, si comincia a pensare di
avere a che fare con qualcosa che cambierà il proprio modo di vedere il mondo: è
ciò che accade quando si ha tra le mani un libro degno di essere letto, una
specie di “classico” post litteram, in cui gli eroi si chiamano Giandante X,
pittore (ma essenzialmente un colosso col volto spigoloso e gli occhi quasi
invisibili), Nori Brambilla Pesce,
partigiana (ma essenzialmente un colosso dai capelli ad onde e con gli occhi
straordinariamente scintillanti), Flavio Costantini, pittore (ma un colosso di
eleganza e di cordiale, cordialissima anarchia); poi, ci sono le balene in
fiamme ed i fumetti… poi, c’è La ballata del Pelé, che è “una storia di
osteria, malavita e nostalgia”, uscito il 1° marzo (Milieu edizioni).
E’ una ballata corale:
la voce narrante è quella del Pelé, Giancarlo Peroncini, una specie di
funambolo, che, tra furti e musica, attraversa una Milano che affascina, che è
stata, che vibra nel ricordo e nella nostalgia, nelle lacrime e nei lutti,
nelle canzoni soprattutto, e che sembra poter essere ancora, nelle pagine di
questo libro che è un romanzo, una memoria storica, il diario di un’epoca non
troppo lontana.
La ballata del Pelé è
un catalogo ricchissimo di esseri umani corposi e intensi che, tra i fumi del
vino e l’unto della carne, sfilano in una Milano irresistibilmente liquida per
le sue acque, che scorrono ctonie e si stagnano, a volte, nei navigli: una
Milano che sembra scorrere essa stessa come lava, nei ricordi di un uomo innamorato
che parla e di un uomo che si innamora, scrivendo.
Prima di tutto, di
questa ballata restano le donne: la storia della Rosetta, con l’articolo
determinativo femminile singolare davanti: La Rosetta, la fanciulla della
canzone popolare che Pelé ancora va cantando, accompagnandosi con il suo
tollofono, nelle notti di una Milano che non vuole lasciar andare: “La storia della Rosetta era ben nota ai
milanesi, tutti ricordavano la figura di una prostituta di diciannove anni che
una notte d’agosto del 1914 era stata uccisa a colpi di calcio di pistola da un
questurino col quale si era rifiutata di andare”. C’è La Tiziana, la moglie
del Gilberto: “Le piaceva essere
scollacciata, talvolta mostrava le cosce piene e pallide, accavallandole
pesantemente o andando avanti e indietro per la Briosca: questo non la faceva
sembrare molto virtuosa, ma era tutt’altro che sconveniente. Se lavorava di
ventaglio, con le labbra socchiuse, era irresistibile”; a far da
contropartita c’era La Elda, “una
brunetta piccola, dai modi garbati ma spicci: aveva un modo tutto suo di dire
le cose, era dura, ma accompagnava le parole, anche le più severe, con gesti di
gentilezza”; c’è La Maria, che “si
butta nel Naviglio”, salvata dagli avventori della Briosca, che mostra “due gocce tonde agli angoli degli occhi,
pronte a cadere, povera stella”; c’è La Mariangela, con “gli occhi che sembravano verdi come l’erba
dei campi sotto la pioggia”; c’è La Didi Martinaz: “Lei viveva liberamente le sue passioni”, “della sua bellezza se ne faceva un gran parlare. […] Lei lo sapeva,
portava sulle labbra il vago sorriso delle donne consapevoli del loro fascino”.
Donne irrequiete, donne di traverso, donne disperate, donne che hanno saputo
vivere e morire. Con goliardica disperazione o disperata goliardia: poco
importa.
Poi ci sono gli uomini
della ballata: il signor Pippo, Nanni Svampa, il Pinza, Gildo Negri, partigiano
e comunista, c’è Bruno Brancher, lo scrittore malandrino, il Wanda, c’è Primo
Moroni, Dix, c’è Billy, c’è il Conte, che “lo
chiamavano così perché somigliava a Dracula, ma anche perché non usava il
dialetto, parlava come i signori insomma. Era alto, snello, aveva i capelli
neri. Aveva occhi scuri e brillanti come due olive, appoggiati su due occhiaie
che sembravano disegnate con il sughero abbrustolito”: “Il Conte era uno di quegli uomini che si
tengono stretta la loro rabbia, perché gli tiene occupata l’anima, gli fa
compagnia”; il Conte era un groviglio di magrezza e di passione, passione
per la Didi; il Conte è l’uomo dell’amore che mente, dell’addio, dell’infelicità
e del coraggio. C’è Erik, “un ragazzo
magro dagli occhi chiari, sempre elegante. […] Aveva uno sguardo tagliente,
diffidente, ma gentile”, una sera entra in Briosca in mutande, aveva fatto
un tuffo nel Naviglio: “Prendetela come
una lettera d’addio”, aveva detto agli avventori suoi amici dell’osteria,
andava via da Milano, “la città è stata
sommersa dalla droga” e lui, giovane pittore, doveva scegliere se andare
via o morire.
Quindi, ci sono i
luoghi della ballata: Milano, dolcissima, struggente e amara e lenta, le cui “facciate delle case avevano l’intonaco
giallo scrostato, sull’acqua verde scorrevano le chiatte cariche di sabbia
proveniente dalle cave. La sabbia era rosa. C’erano i panni di mezza Milano:
bianchi e colorati, stesi ad asciugare nei cortili o ammucchiati nelle ceste
delle lavandaie.[…] Le chiatte arrivavano, i tram sferragliavano, i treni
partivano e in mezzo c’erano ombrellai, lavandaie, musicanti e perdigiorno”; il Naviglio e la Darsena,
la Briosca, lo zoo, le Tre fontane. C’era Bombe e c’era l’ippopotamo, c’erano i
fili di rame del telefono usati come corde per le chitarre e c’erano i monaci
dell’abbazia di Chiaravalle che facevano a cazzotti con i preti di piazza
Bologna.
La ballata ha note di
malinconia, è la mancanza di un mondo dove c’era l’amore e la memoria, la
solidarietà e l’amicizia. C’era la passione e c’erano le stragi. C’era persino
il perdono. C’era la musica, che stordiva e che leniva, che faceva le sue
battaglie e non si vendeva mai; c’era la musica pura, quella che non conosceva
il vil denaro; c’era l’anima degli uomini. C’era l’umanità. C’era la
giovinezza, magra e densa. C’era un dialetto viscerale e c’era la violenza.
Nella ballata c’è l’anima
del Pelé, che sembra fare l’occhiolino a quella della poetessa, Alda Merini,
che, come lui, ha cantato Milano, ma ora la città è “una grassa signora piena di inutili orpelli”[1] . Pelé
è in tutti i suoi ricordi. Pelé, al quale ora sua moglie Rosanna ricorda di
fare l’insulina, è l’aedo di un mondo che non è più, di un sogno vissuto tra
fiori e rovine, tra grappe, Negroni, il busto di Lenin sullo scaffale, il “bianchin sporco” e l’odore di minestra.
Non resta che cantare per
un’altra emozione; rubare una zolletta di zucchero da tuffare nel caffè e
lasciare che una donna rimanga sveglia ad aspettare ancora un po’.
La scrittura di Roberto
Farina è come il lievito madre, trascina l’anima in un impasto che ora
travolge, ora carezza, ora commuove, ora fa tremare. Roberto Farina è scrittore
di eleganza rara: carismatico, impetuoso. In ogni sua opera c’è un turgore
nuovo, simile a quello delle gemme che, a primavera, si approntano ad esplodere.
Raffinato e ingordo di Suburra; anarchico, come la libertà; sensuale, come un
tango lontano, che è vampa di sperma e di nostalgia.
La ballata del Pelé è la sintesi di un gusto
tutto “fariniano” per le cose belle: è impreziosito dalle illustrazioni di
Elfo, dalle fotografie dell’archivio personale di Pelé, dal ritratto del Pinza
di Erik Scheller, da saggi e interviste di chi c’era e da un cd registrato al
Ligera tra il novembre del 2017 e il gennaio del 2018.
Un romanzo, un saggio,
uno spaccato di storia contemporanea, appassionatamente vissuto, amorosamente
cantato.
Francesca Aurelio