mercoledì 5 agosto 2020

Letture di giugno e luglio

M. Nucci, Achille e Odisseo. La ferocia e l'inganno, Einaudi

La penna di Nucci è fedele a se stessa e riconoscibilissima: chi ha letto Le lacrime degli eroi e L'abisso di Eros sa che Nucci è promessa di scrittura altissima.

Questo libro è a metà strada tra il romanzo e il saggio e, allora, si sogna, si impara,  ci si conferma nell'estasi dell'innamoramento: Achille resta sempre il leone e Odisseo non può che essere il polpo. A pagina 87, ho pianto:"La fragilità degli eroi. Perché non esiste uomo realizzato che non si sia misurato con le proprie debolezze. Al punto che si potrebbe stabilire una legge che agli appassionati di supereroi e agli illusi dell’invincibilità degli antichi personaggi mitici potrebbe risultare completamente indigesta. Solo chi conosce le proprie debolezze può dirsi uomo. Solo chi è davvero pronto alla sconfitta può ambire all’espressione completa della propria umanità: l’eroismo”.


G. Montefoschi,  Desiderio, La nave di Teseo

Nel bel mezzo di relazioni disciplinari, relazioni coordinate di classe, giudizi e numeri,  volevo un romanzo leggero, che mi distraesse: mi sono ritrovata a leggere Desiderio.

Trama un po' obsoleta: l'amore che sopravvive a tutto e che si intreccia a gelosie, dolori, malattia, ossessione della malattia.  Bugie, radici, traumi. Buon romanzo, scritto in una bella lingua italiana, ma troppi personaggi. Roma splende ovunque. Il passaggio più bello è a pagina 153: “Avrebbe voluto dirle che l’amava, non aveva smesso neppure un giorno d’amarla, era stato il suo unico amore; che gli anni nei quali erano stati lontani potevano cancellarli in un istante; che la sofferenza atroce dalla quale era stato annichilito, pure quella era sparita, non esisteva più; che gli occhiali lo avevano commosso, tutto lo commuoveva di lei: le calze tirate, i tacchi alti, i meravigliosi occhi neri, le labbra dischiuse che spasimava di baciare per ritrovare il sapore che non aveva dimenticato mai; che lo avrebbe fatto immediatamente, se non ci fossero stati quei ragazzini con le biciclette, le mamme con le carrozzine, i passanti, ma che era bello pure così: non pensare a nulla, stare vicini…”.


 

G.Ritsos, Bianche macule sopra il bianco, Torri del vento.

Ghiannis Ritsos è monumentale, in tutto ciò che Egli è e ha scritto. Quando mi è capitato per la prima volta di leggere una sua poesia mi trovavo ad Atene, era il 2015, cercavo notizie sul teatro che avevo appena visto sulla strada che percorrevo, mentre aspetto la mia moussakà in una taberna e mi imbatto su internet in una poesia: c'è chi naviga poi ci sono io avvezza ai naufragi. 
La poesia era tratta Erotica e così creduto che si trattasse di un “amoroso” e, poiché ingabbiata in un amore senza capo né coda e poiché tutto mi sentivo tranne che adulta, volli leggere Erotica e feci l'ordine su Amazon, così al mio entro in Italia avrei trovato il libro a casa. Questo per dire che tutte le più grandi passioni nascono nell’assoluta incoscienza. Erotica non era che la punta di un iceberg bollente fatto di mitologia, di resistenza, di amore per gli altri, di dolore, ma soprattutto di una tale potenza di esistere che mi ha guarita da tutte quelle pochezza nelle quali quotidianamente mi imbrigliavo. Nel 2016 mi sono dovuta di colpo inventare adulta, ho smesso di essere figlia, ho conosciuto la morte e lì, ancora una volta, Ritsos è stato la catena che mi ha tenuta stretta all’esistenza. Ho letto tutto ciò che di Ritsos è stato tradotto in italiano: sono certa che con Ritsos, appena mi sentirò pronta, imparerò il neogreco.

Intanto quest’estate, due nuove pubblicazioni di Ritsos (oramai le sue opere sono per lo più introvabili!) hanno arricchito la mia anima: la prima è proprio BIANCHE MACULE SOPRA IL BIANCO. Si tratta di 110 poesie tradotte da M. Caracausi.

Ci sono gli oggetti di Ritsos, c’è il suo sguardo che placa il mondo, c’è il dolore che tace e la pace naturale, c’è il bianco che acceca, il bianco che accoglie, il bianco che vomita la tempesta. C’è l’amore, c’è la morte. C’è la bellezza.

Dentro i miei sogni
sempre tu,
con una bicicletta,
con un albero,
con lo specchio.
Togliti una buona volta
dai capelli
questa rosa.
Io
inchiodo le mie carte
con una stella
perché non me le porti via il vento
”.




G. Ritsos, Molto tardi nella notte, Crocetti editore

Opera capolavoro, ultima raccolta di Ritsos, composta tra il 1987 e il 1989 a Samo.

È la raccolta più cupa di Ritsos, una sorta di “appressamento della morte”, ma anche una specie di lascito dell’essenziale. La traduzione di Nicola Crocetti è strepitosa, musicale, aspra e dolce al tempo stesso.

È la poesia delle “Assenze”:


Bella donna silenziosa, dall’incedere lento,
avvolta nella porpora della sera
tra due pavoni dalle code aperte.
Fuori della porta, le grandi galosce infangate
del guardaboschi. E sopra le alberature
occhieggia una piccola luna balbuziente.
Ora dovrai parlare tu al suo posto,
ma le parole mancano a poesie già dette
.

E’ il luogo dell’oblio (Oh, anni infantili dimenticati,/anni senza sospetti, ipnotizzati dal bel sole/ tra due miracoli ignoti. Il grande libro/ era chiuso sulla sedia di paglia del giardino).

È la poesia del tempo, delle rivoluzioni lontane, della tristezza sottratta all’uomo dai giorni d’estate:
Un’altra estate
Questi bei giorni di sole sottraggono ogni argomento alla tristezza.
Baluginano le case calcinate sparse sulla collina verde.
Ecco, anche un cavallo rosso nella piana. Ma erano veri
quella ragazza nel campo di granturco e quel ragazzo
nell’oro del meriggio che faceva segno al battello di passaggio
con l’asciugamano da bagno. Eri vero
anche tu che credevi alla musica e non avevi niente di tuo
se non quello che donavi, e forse quello che donerai ancora
.
(Karlovasi, 25.VII.87)

L’ultima estate
Dicono addio i colori dei tramonti. È tempo di preparare
le tre valigie-i libri, le carte, le camicie-
e non scordare quella veste rosa che ti stava così bene
anche se d’inverno non la indosserai. Io,
nei pochi giorni che ancora ci restano, riguarderò
i versi scritti in luglio e agosto,
anche se temo di non avere aggiunto niente, semmai
di avere sottratto molto, poiché da ess traspare
l’oscuro sospetto che questa estate
con le sue cicale, i suoi alberi, il mare,
coi fischi delle navi nei tramonti gloriosi,
coi barcaioli sotto i balconi al chiar di luna
e con la sua misericordia ipocrita, sarà l’ultima.

(Karlovasi, 3.IX.89)

È la poesia della lenta stanchezza, degli addii. Ed è sintesi straordinaria della produzione di Ritsos. È l’opera aspettata da anni, cercata, introvabile. È carne, sangue e spirito. Ritsos andrebbe ASCOLTATO in tutte le scuole del creato, insieme al battito del proprio cuore.

 


V. Perrin, Cambiare l’acqua ai fiori, edizioni e/o

Romanzo femminile, storia di una madre-Violette- e di una figlia –Leonine; storia del più grande dei dolori, della forza di ricominciare; storia di una casa davanti ad un cimitero, più viva di qualunque altro luogo.
Romanzo sul senso di esistere che va cercato nella quotidiana cura di un giardino sacro, sul senso dell’amicizia profonda, della passione che devasta, delle vite cominciate storte da raddrizzare.

La salvezza viene dal mare. E così ogni risposta.

Non aggiungo altro: solo che Sasha vorrei incontrarlo anch’io, un giorno o l’altro.

Questo romanzo lascia addosso una dolcezza che sa di “cannella”: sembra sia un best seller, meno male che non lo sapevo, forse non lo avrei scelto.


 

 

O. Kessel Pace, Scilla. Racconto mitologico, Città del Sole edizioni

È una “favoletta”. Semplice semplice. Per chi vuole conoscere il mito di Scilla e l’amore di Glauco. C’è qualche errore (reinterpretazione?) nella descrizione dell’isola di Eea, che pare popolatissima, in barba alla solitudine della maga Circe.
Meno male che si legge in un’ora scarsa.


 

S. Veronesi, Il colibrì, La nave di Teseo

Non leggo quasi mai “chi vince”, preferisco di gran lunga i “vinti”: questa volta ho approfittato delle vacanze e un altro romanzo ci stava nelle mie letture.

Il colibrì è una sequela di tragedie che consumano i giorni del dottor Marco Carrera; alle tragedie si aggiungono detti, non detti, famiglie solo apparentemente sane, profondamente segnate da incomprensioni, silenzi, omissioni, compromessi, sensi di colpa. C’è il grande, strano, muto, difficile triangolo Marco-Luisa-Giacomo (il fratello di Marco); c’è la morte di Irene, la follia di Marina e c’è, soprattutto, il rapporto esclusivo di Marco con sua figlia Adele, che mette al mondo Miraijin, poco prima di andarsene via per sempre. Finale struggente, con una morale di speranza: pur rimanendo APPARENTEMENTE fermi, si cambia e, nonostante dolori inenarrabili, c’è-e resta sempre- qualcosa di buono che può salvare il mondo. È un romanzo “strano”. Triste. Eppure pieno di luce.



                                                                 Francesca Aurelio

lunedì 3 agosto 2020

G. Norcia, A proposito di Elena, Vanda edizioni: una "fiaccola" che splende nelle notti d'estate.

Giuseppina Norcia è una garanzia: la sua è una scrittura che viene da “lontano”, da una lontananza fatta di sapienza, saggezza, amore ed elezione. Giuseppina Norcia è una creatura armoniosa, tra le cui mani scivolano sete d’Oriente e lini d’Occidente, nella cui voce c’è la grazia di una poetessa e la potenza oracolare di una profetessa sicana.


Dopo il suo Achille, “compagno di Thanathos”, non mi sarei mai aspettata Elena e, invece, ecco che, sorprendentemente, arriva colei della quale nessuno ha saputo dire “com’era fatta”: del resto, “Nessuno lo sa, perché nessuno l’ha mai guardata: bisognava adorarla come una dea o possederla come una femmina” e gli uomini la amavano “fino ad esserne terrorizzati”.

Con un incipit di tal genere, non si può che immergersi “dentro” l’incantesimo di Elena, del suo odore, che “si respira” anche se lei non c’è.

Di Elena non si sa niente. Crediamo di conoscerla, non l’abbiamo mai guardata”: è questo il paradosso, Elena, infatti, è la bellezza e la sciagura, è doppia, è carnefice e vittima, è fiamma d’amore, oggetto d’odio.

Elena è una maledizione, per sé e per gli altri: “tutti coloro che hanno desiderato Elena, intorno a lei hanno costruito un’ossessione consumata nella violenza, individuale e collettiva. Nella rovina”. Elena è Lolita, ma è anche vittima sacrificata; Elena è un corpo da espugnare come fosse una citta e, allora, sostiene l’autrice, “il sesso diviene un’esposizione del potere e della guerra”.

E’ maestra di seduzione Elena, come Aspasia, “con lo sguardo da cagna”, ma è figlia di Zeus, forse; oggetto di una contesa divina, è la vittoria amara della bellezza, una bellezza “mai detta”, che solo apparentemente vince, perché “la bellezza è divenuta una prigione” e “mantiene sempre un carico di dannazione”.

Elena è “fiaccola”, è la “splendente”, è la “luminosa”: “muove sulla terra i suoi passi, ma appartiene a un altro mondo” e, come “ogni angelo è tremendo”: “la chiamavano Elena, come una malattia, un cataclisma, come una sventura”.

Straordinarie le pagine in cui Elena “diventa” Alcibiade e Alcibiade “diventa” Elena: storia e mito si intrecciano e divengono vita “senza tempo”, in un gioco di “maschere” volto solo, come direbbe il conterraneo di Giuseppina Norcia, Luigi Pirandello, alla nudità.

La donna più bella e più pericolosa del mito e l’uomo più bello e pericoloso della storia si scambiano le maschere, nel segno del loro carisma, della conquista, della perdizione”: passi di una struggente meraviglia, che fanno a gara con le pagine dedicate all’Elena di Stesicoro, alle parole di Simone Weil.

La domanda resta però aperta: “Chi è Elena oggi?”. Non pare esserci altra risposta che quella di Giuseppina Norcia: “C’è una bellezza che salva e un’altra che irretisce. C’è una bellezza che libera e un’altra che intrappola dentro desideri irrefrenabili. E’ doppia, proprio come l’essere umano”.

E, quindi, Elena di Sparta, Elena di Troia, Elena premio di Afrodite, Elena figlia del cigno, altro non è che uno scintillante giorno di sole davanti al mare in tempesta, con la canicola, le cicale e i pini che trasudano linfa odorosa. Tale è anche la scrittura di Giuseppina Norcia: splendente. Seduce e porta nell’altrove di una donna piena di primavere plurali, lungo sentieri magnifici di coscienza di sé e dell’altro, nel comune destino di figli di Grecia venuti al mondo nella terra promessa: questa Magna Grecia sublime e dimenticata, folle e rovente come vampa d’agosto, che accoglie e non distrugge, che trema e spera, che ricorda e piange, che brilla.

                                                                                                          Francesca Aurelio


mercoledì 10 giugno 2020

R. Farina, Io per Bruno Brancher non ho mai pagato: un piccolo capolavoro pieno di refusi.





E’ un giorno d’un giugno di pioggia e marmellata. Ho appena finito di leggere l’ultima pubblicazione di Roberto Farina, Io per Bruno Brancher non ho mai pagato. Il mio umor cangiante, come queste mattine che “doveva essere estate e invece…”, d’improvviso ha subito una specie di mutazione genetica: avevo custodito per giorni il libro sul comodino, attendendo che la didattica a distanza e gli adempimenti di fine anno scolastico mi concedessero di concedermi il lusso di una tregua.
La tregua è arrivata e che tregua! Tre ore traboccanti dell’impetuosa giovinezza di un ladro scrittore che incontra fatidicamente “l’ultimo picaro” di nascita, “l’uomo delle biciclette gialle” di mestiere, il poeta per grazia ricevuta.
In realtà, come sempre accade per i libri di Farina, non si sa mai quale sia il limite tra romanzo, saggio, biografia: ciò che crea Roberto Farina sfida ogni definizione teorica ed esplora terreni di scrittura abitati dallo stupore, dalla seduzione, da quel desiderio di percorrere le sillabe con le mani, con gli occhi, con la bocca… Ad ogni sillaba conquistata, si entra in una sorta di turbamento che invade il tempo e la spazio e ti trascina nella dimensione smisurata di spaccati di vita dei quali poi è come se si avesse il sentore di aver fatto parte. E allora eri con Giandante che percorreva le vie impervie dei suoi volti, eri con Nori che sognava il pane bianco, eri con Gianca morso dal fuoco.
Questa volta il lettore è sopraffatto dai vent’anni travolgenti, avventurieri, di un irresistibile Roberto Farina, che si lancia, come il piè veloce Achille, nella sua giovinezza affamata di eterni oggi e, allora, ecco che Io per Bruno Brancher non ho mai pagato è un romanzo di formazione, un atto di gratitudine, un ricordo sublime, un dono che vuole denudare la bellezza.
Il libro si apre con un furto e una giustificazione: il ragazzotto milanese che ruba Tre monete d’oro e la descrizione di una passione della giovinezza, che è come un bicchiere d’acqua fresca sotto la calura: “Eravamo sorridenti, giovanissimi, con la coscienza tersa come un cielo d’estate sempre blu. Chi ha avuto questo mucchietto di cose tutte insieme sa di cosa parlo, quando dico che eravamo felici”, felici come i titani, perché “Anche Prometeo era un ladro”.
Quindi, Farina sfodera una vera pubertà della parola, una scrittura di entusiasmi, che si posa sulla pelle come lenzuola fresche alla controra. L’incontro con Bruno Brancher che “trottava colorato e smuoveva l’aria all’intorno”: sembrava “traboccare vitalità?”, si chiede il giovane Farina, e a quell’incontro sembra d’esserci stati.
Di Bruno viene fuori un ritratto strabiliante di “un monello pescato con le mani nella marmellata”, ma anche di un uomo dalla sofferenza indicibile: Bruno la vita se l’era ingoiata con tutte le sue spine, con tutti i suoi macigni e le sue disperazioni. Con ostinazione e testardo attaccamento.
Il carcere diventa per questo ladro balbuziente il luogo della trasformazione: “In carcere ti tolgono la libertà e ti danno la noia. Una noia mortale, disperata. […] Fu allora che imparai a scrivere, intendo dire a mettere a posto le sillabe per poi formare le parole e in seguito un pensiero, e poi incominciai a leggere, leggevo di tutto, dai fumetti a Tolstoj, quando non capivo qualche cosa, andavo a farmela spiegare da un laureato, ce ne sono tanti in carcere”.
La casa di Bruno era per Roberto un’alcova di misteri, che sapeva di  legno vecchio e tabacco” e nel cortile c’era un pesco a coronare la strana aura del luogo: “Quel pesco non scavalcava l’inverno, lo attraversava fiorendo”, esattamente come Bruno.
Via dei Cinquecento “brulicava di vita” ed è occasione di vedere la signora che salvava i fiori, Pilù, il vecchio che cantava la canzonetta del Balilla o l’Internazionale, i due del piano di sopra che fanno l’amore. Bruno osserva; Roberto lo asseconda e poi fantastica. Fanno un patto d’amore e il loro giuramento si inorgoglisce di Barbera, una manciata di noci e grana a cubetti.
A questo punto si è completamente sedotti: dalla vitalità di Brancher e dalla vitalità della parola di Farina, connubio senza fine bello. E a quella domanda-traboccare vitalità?- la risposta è affermativa.
 Quasi a metà racconto, eccoci a “L’orrendo misfatto”: un delitto d’amore raccontato con amore. Siamo a pagina 42 e si prova un misto di commozione, rabbia, rispetto, dolore, ma soprattutto si ricambia amore. Per il candore di un uomo che afferma: “Sono solo innamorato di Patrizia, che tiene solo trentadue anni meno di me”. “L’orrendo misfatto” gli costa un’atroce galera, divenuta educazione di sé a resistere: si sentiva braccato e cercava la solitudine, fino alla decisione di “non piangere più”; allora, durante la rivolta di Capodanno a San Vittore, Bruno con le Confessioni di Sant’Agostino in mano, pensa a Patrizia.
Poi le poesie di Ricky, il rapporto con Paz; l’offesa del Botolo, il furto delle poesie “del suo amato François Villon (che lui pronunciava con tre “L” ben scandite)”. Le amnesie, il cuore in mille pezzi, i ricordi d’infanzia, l’estate in Salento, Marcinelle. Milano, la Milano di Bruno, della sua Alda, di Ricky, di Roberto. Un finale che lascia senza fiato.
Cin, cin, Bruno! Scrivi, scrivi! Se Euridice è perduta, ci rimane il canto di Orfeo. Il poeta strappa il terreno alla morte. Il resto è grammatica! Salute, salute! Cin cin!”.
Per pagine così, ci si può vendere l’anima: Farina è come la luce del tramonto che sbatte sul marmo bianco di una scultura; non se ne può parlare. La si deve vivere. Farina è Prometeo. La sua scrittura è il fuoco. E il lettore è “un uomo che mangia pane” investito dalla grazia.
Io per Bruno Brancher non ho mai pagato è fecondo seme di giovinezza in un mondo che, ahimè, è ridotto a un pavimento di scadentissima graniglia graffiato da scarponi chiodati. Però è come se Medea, la tradita, fosse ascesa all’Olimpo e lo avesse trovato abitato da due divinità superstiti, immortali, libidinose, eccelse. Due soltanto.
E lei rinasce dopo lavacri sacri di poesia. Per stanare refusi. Per baciare in fronte quella giovinezza.

Francesca Aurelio