mercoledì 14 novembre 2018

Il regalo di Nicola nel giorno del SUO compleanno.


La musica di Nicola Gelo è un raggio di luce in novembre: penetra dalle persiane chiuse di un io sdrucito e scalda mani fredde. E dimenticanze. E’ un trionfo di pace che viene a rannicchiarsi nel cuore, un tepore inaspettato, una levità di fanciullesca natura. E’ una vaghezza che avvolge, come il velo di una vergine che danza su pozzanghere profonde con le sue scarpine di raso.


E, nella Vallée du silence di Nicola Gelo, le voci delle stagioni, degli astri, dei vivi, dei morti, degli sciamani e degli dei si intersecano in un turbine dorato che innalza e redime, che vince il dolore e fa del fango creaturale materia di un’armonia in cui l’universo tutto si compiace. La musica di Nicola è intimità, è sympatheia, è “secreto” interiore, è liquido amniotico ove la salvezza è possibile. 
La musica di Nicola è esercizio di gentilezza, è quintessenza di generosità. Pioggia che purifica e ingravida deserti aridi. E’ carezza. E’docilità. E’ la ninnananna a Persefone che scopre l’amore. Rasserena il turbamento dell’adolescenza folle sui cui petali sono appena passati polpastrelli sinuosi. 
Le corde dei suoi pianoforti sono percosse dai martelletti della sua dismisura di poeta: è la giostra del divenire che diventa sintesi di un ordine supremo, archetipico. Feroce, dolcissimo. Abissale, come il volto supremo di Ade quando il sole rinnova le ore. E il mare diventa “del colore del vino”. 


Vallée du Silence




domenica 5 agosto 2018

LETTURE DI LUGLIO


G. R. Hocke, Magna Grecia. Escursioni letterarie attraverso il Meridione greco d’Italia.
(fbe edizioni; ed.originale 1960; ed.italiana 2010)


Un romanzo, che è anche un trattatello di storia e un diario di viaggio; la prosa è scorrevole e lirica al tempo stesso: ad ogni periodo, ad ogni capoverso, si sente la Magna Grecia che abbiamo nel sangue ribollire, volteggiare, danzare e gioire dentro, per chiudersi poi in una nostalgia di bellezza, in quel crepuscolo di magnificenza, destinato a divenire sempre di più, ahinoi, una notte cupa.
Il protagonista è Manfred, l’alter ego dell’autore, antinazista della primissima ora, che attraversa Puglia, Lucania e Calabria in un tripudio di stupore e in un carnevale di incontri che restano scolpiti nella memoria, come se il lettore stesso fosse lì ad ascoltare il Conte C., mentre parla di Sybaris, di quella “lussureggiante vegetazione”, in cui “il paesaggio richiamava alla memoria più l’immagine di una foresta che quella di campi coltivati”; o ancora Pietro, che accompagna Manfred a Crotone di “avorio e azzurro”, ove i due mangiano “pane e nespole”.
Il brano più struggente? quello affidato alle parole del Conte C., che prima del commiato, stappa, nella sua villa, che domina dall’alto la Sybaris ritrovata, una “bottiglia di vino polverosa e priva di etichetta” e dice: “Bisogna berlo accompagnandolo con torta di pistacchi e insalata fresca, condita con rosmarino. Questo vino, che vi raccomando di cuore, si chiama Greco di Gerace: il principe di tutti i vini di Calabria […]. Il Greco è un fuoco silente, che mette allegria e stimola lo spirito. Ha la magia di predisporti l’anima alla musica, spingendoti alla danza. E’ come se nella sua essenza fossero diluite le melodie di Orfeo e ne prendessero il colore. Quando la fonte dispensa frescura all’ombra della nostra pergola, esso brilla come se fosse dotato di vita propria”.
L’ultima escursione, prima del ritorno di Manfred in Germania, è a Paestum: “Sul tempio di Poseidone l’oro si fondeva con il rosso vivo dei germogli di melograno in una tonalità solo leggermente più scura del sole quando, in una giornata di pioggia, esso bacia il mare poco prima di accomiatarsi”.
Una lettura bellissima. Traduzione dal tedesco meravigliosa. C'è Pitagora, Cristo, le madonne, le vergini e le giovani sensuali e peccatrici di Calabria.
C’è una pecca: refusi a dire basta, che urtano il sistema nervoso e scatenano l’ira funesta (nella mia copia ho provveduto alla correzione: la lascio in prestito volentieri, qualora qualcuno volesse leggerlo). Il prezzo di copertina è 16 euro e li vale tutti, centesimo per centesimo: lo dico perchè qualcuno proprio stamattina mi ha fatto notare che i libri costano un patrimonio, ma appena si capisce che sono un bisogno primario, be', basta comprare una maglietta in meno, in fondo.

Colm Tóibín, La casa dei nomi
(Einaudi, 2018)



“Ho dimestichezza con l’odore della morte. L’odore nauseabondo e zuccherino che si diffondeva nel vento raggiungendo le stanze di questo palazzo”: è Clitemnestra che parla; la Clitemnestra che nega l’esistenza degli dei e che ha a che fare solo con la ferocia e con i suoi innumerevoli volti: lei li conosce tutti, ad uno ad uno. La casa dei nomi è una rilettura dell’Orestea, con varianti moderne e violente. Tóibín fa di ogni personaggio un monumento di scelleratezza e dolore: Clitemnestra parla in prima persona ed è ferita, la sua sorte è un cane che latra nei silenzi delle notti a palazzo; ha sentito morire Ifigenia sull'ara di Artemide, rinchiusa in una tomba da viva, dove gli achei la hanno murata, con una benda sulla bocca, per non farle pronunciare maledizioni. Oreste è stato rapito: Egisto ha voluto così, con la complicità della madre, che non smette mai di essere madre: ma di figli perduti. Perché Ifigenia è simbolo incontrovertibile dell’obbligo della regalità; Oreste è la vera vittima sacrificale; Elettra è la macchinatrice, il tabernacolo dell’odio.
Ifigenia resterà vergine per sempre; Oreste è la solitudine; Elettra è implacabile. Di Clitemnestra cosa rimane dunque? Un’ombra che ricorda l’amore, ma non i nomi di chi ha amato.
Nella Casa dei nomi, infine, qualcuno sta nascendo; ma non è ancora nato. E resta sospeso tra utero e dolore. Per sempre. Si dice che sia femmina, ma non se ne ha la certezza.
La prosa di Tóibín si conferma ipnotica, serrata. Non ti lascia in pace, mai. E poi ti lascia intravedere un bagliore, che resta domanda.
Assolve, in qualche modo, Clitemnestra. E il lettore, con lui, stavolta non perdona Elettra; proprio non la perdona.

Sylvian Tesson, Un’estate con Omero.
(Rizzoli, 2018)



“Mi sono immerso nell’Iliade e nell’Odissea come nelle acque impetuose di una cascata. Ho respirato per mesi al ritmo dei versi omerici, nelle mie orecchie ne risuonava la musica, battaglie e navi in procinto di levare le ancore affollavano i miei sogni”: come affollano i sogni di chiunque ami il greco antico, puro e sublime, di Omero. Tesson ha vissuto in una piccionaia a Tinos, nell’Egeo e lì ha riletto per noi Omero: un saggio scorrevole ed elegante; a volte di una semplicità disarmante, quasi incredibile.
Si torna fanciulli a leggere questo Tesson: per un paio di questi miei giorni d’estate sono tornata bambina, con mio padre seduto nella piazzola davanti casa a leggere Bufalino e io, vestita di giallo, con la mia Odissea illustrata tra le mani.


Giuseppe Catozzella, E tu splendi.
(Feltrinelli, 2018)



Il Sud, la genuinità; la perdita; l’amaro sentirsi depositari di un’ingiustizia atavica; la rabbia nei confronti di Dio; la fanciullezza; Pasolini, Carlo Levi, un’eco di comune appartenenza e un piccolo eroe, Pietro.
La cattiveria, della sorte e degli uomini; l’istinto di vita; la violenza, l’amicizia, il perdono, l’emigrazione, gli immigrati.
E’ un concentrato di Sud questo romanzo di un giovanissimo Catozzella: una favola, di quelle che non hanno lieto fine, di quelle che però fanno vedere che tutto ciò di cui abbiamo bisogno è di essere umani. Le differenze si annullano e la diversità splende-sì, splende- solo quando l’appartenenza alla comune radice di creature umane ci tiene stretti, come grani di un rosario, nelle mani di una nonna.
I personaggi di Catozzella innamorano: Pietro e Nina, Nononna e Nononno; Zi Salvatò; Josh, Refè.
Da leggere. Per riconoscersi. Per ritrovarsi. Per guardare i nostri calanchi interiori e meravigliarsi.
Due lacrime mi ha rubato questo romanzo, che sono perle:
“Così, io in quinta elementare e Nina in terza, ci siamo ritrovati orfani, che vuol dire che tua mamma invece di abitare fuori inizia ad abitarti dentro”; “La paura è una bugia”.
Per lettori grandi e piccoli.

***

Auguro a me stessa di innamorare tutti i miei alunni della lettura: quest’anno che viene, magari, porteremo con noi uno scampolo d’estate, leggendo tutti assieme di Pietro, Nina, Donatino e di Arigliana, che poi è Albidona, Trebisacce, ma è pure Milanox, come dicono i bambini del romanzo; è pane e pomodoro, vino buono; noci e zafferano; amore, indifferenza, luna e fuochi.

venerdì 1 giugno 2018

“Non siamo botti vuote, ma campi di battaglia”: Fuochi, il nuovo libro di Roberto Farina edito da Le Milieu.




C’è uno scrittore che è un aedo: la sua prosa è come il canto di Demodoco alla corte di Alcinoo, commuove e fa godere; i suoi racconti sono come gli amori di Ares e Afrodite: incomparabili, di guerra e d’amore, di mistero e di lava.
Roberto Farina è un equilibrista che, dalla sua corda sospesa a mezz’aria, guarda le mongolfiere compiere i loro virtuosismi nel cielo e i loro Fuochi sono alimentati dall’attaccamento alla vita, dall’istinto alla gioia, pur nella consapevolezza, che mai viene meno, neanche per un istante, d’essere mortali.

 E Farina, che pure non lesina la brutalità della morte e non fa sconti alla coscienza feroce della precarietà d’esistere, tesse un canto alla vita che sboccia, che ama, che trema, che rischia, alla vita che esplode e che si reinventa, a chi si rigenera e non risorge (chè la resurrezione sarebbe un’illusione tremenda), a chi non si arrende, a chi fa della generosità il suo fiore sul petto, a chi deve andar via e a chi non è mai stato.

Fuochi è un’edizione speciale: è un’ampolla che custodisce il secretum; sono quattro racconti che, insieme, formano una corona di cellule vive: ogni sillaba secerne un liquido emozionale, che nasce dalle stimmate dell’homo humanus e diventa seme che feconda la terra, immane e vorticoso utero che, accogliendo, rigenera in quell’anaciclosi inesorabile, unica consolazione, unica centrifuga di speranza.
Ogni racconto è un monito a bere tutto il calice della propria esistenza: Giancarlo Bugetti gioca da sempre col fuoco e “la sommità del (suo) cuore sembrava scucita”, si commuove facilmente, perché ha “il cuore spezzato”; “Gianca” ha temuto sempre i “due morsi di lupo” e il lupo non lo ha risparmiato: lui però spegne la luce per non vedere le sue ferite, almeno fino a domani.  Etty Hillesum è la fanciulla dei fiori, la ragazza “golosa”. Etty è amata da Klaas, ma poi fa la lotta sul tappeto con il dottor Spier, si fa inseguire da un verso di Rilke e, ferma davanti ad un lillà, guarda passare due SS tedesche a pochi metri da lei: “Come possono coesistere tanta bellezza e atrocità?”, si chiede. Anche Etty viene ferita a morte, come Gianca, e anche lei sa che “Siamo degli avamposti di universo, disseminati in tutto il mondo”. E’ la volta di Idio, il milite ignoto, il bambino generoso, il fanciullo che cura il dolore con l’erba spargine, il giovane che va alla guerra e alla guerra Idio conosce la morte; la madre lo chiama Bimbo e la trincea lo ingoia; di tanti giovani non restano che monumenti al Milite ignoto e, nel giorno della festa e delle commemorazioni, una madre “piccola e minuta”, guardando una statua in onore ai caduti, non può che dire:”Non somiglia per nulla al mio Bimbo”.  L’ultimo racconto è dedicato a Kaspar Hauser: in lui si cela un mistero mostruoso; lui non è oppure è e non può essere; lui è l’errore che conferma la regola; Kaspar è l’enigma, Kaspar è un redivivo Edipo, una novella Gorgone: i mostri non possono amare.
Fuochi ha quattro fiamme: una più rubescente dell’altra, caldissime scintille di lava universale, lapilli di magma ancestrale. Roberto Farina scrive con penna incandescente, a sangue caldo. Quando la passione si infiamma, l’incendio travolge e non c’è contrario che possa annullarlo. Roberto Farina ha spiato Efesto, mentre lavorava nelle sue fucine, ha scaldato il suo cuore alle fiamme del dio e ha sognato quattro eroi che restano, come un tatuaggio, sulla superficie dell’anima.
Degna di nota la copertina: un nome, un titolo e un dipinto –incandescente- di Giandante X.

Francesca Aurelio


lunedì 12 marzo 2018

“Litri di mistura attraverso le budella”: La ballata del Pelé di Roberto Farina.



Ogni volta che si apre un libro di Roberto Farina, dopo i primi capoversi, si comincia a pensare di avere a che fare con qualcosa che cambierà il proprio modo di vedere il mondo: è ciò che accade quando si ha tra le mani un libro degno di essere letto, una specie di “classico” post litteram, in cui gli eroi si chiamano Giandante X, pittore (ma essenzialmente un colosso col volto spigoloso e gli occhi quasi invisibili),  Nori Brambilla Pesce, partigiana (ma essenzialmente un colosso dai capelli ad onde e con gli occhi straordinariamente scintillanti), Flavio Costantini, pittore (ma un colosso di eleganza e di cordiale, cordialissima anarchia); poi, ci sono le balene in fiamme ed i fumetti… poi, c’è La ballata del Pelé, che è “una storia di osteria, malavita e nostalgia”, uscito il 1° marzo (Milieu edizioni).
E’ una ballata corale: la voce narrante è quella del Pelé, Giancarlo Peroncini, una specie di funambolo, che, tra furti e musica, attraversa una Milano che affascina, che è stata, che vibra nel ricordo e nella nostalgia, nelle lacrime e nei lutti, nelle canzoni soprattutto, e che sembra poter essere ancora, nelle pagine di questo libro che è un romanzo, una memoria storica, il diario di un’epoca non troppo lontana.
La ballata del Pelé è un catalogo ricchissimo di esseri umani corposi e intensi che, tra i fumi del vino e l’unto della carne, sfilano in una Milano irresistibilmente liquida per le sue acque, che scorrono ctonie e si stagnano, a volte, nei navigli: una Milano che sembra scorrere essa stessa come lava, nei ricordi di un uomo innamorato che parla e di un uomo che si innamora, scrivendo.
Prima di tutto, di questa ballata restano le donne: la storia della Rosetta, con l’articolo determinativo femminile singolare davanti: La Rosetta, la fanciulla della canzone popolare che Pelé ancora va cantando, accompagnandosi con il suo tollofono, nelle notti di una Milano che non vuole lasciar andare: “La storia della Rosetta era ben nota ai milanesi, tutti ricordavano la figura di una prostituta di diciannove anni che una notte d’agosto del 1914 era stata uccisa a colpi di calcio di pistola da un questurino col quale si era rifiutata di andare”. C’è La Tiziana, la moglie del Gilberto: “Le piaceva essere scollacciata, talvolta mostrava le cosce piene e pallide, accavallandole pesantemente o andando avanti e indietro per la Briosca: questo non la faceva sembrare molto virtuosa, ma era tutt’altro che sconveniente. Se lavorava di ventaglio, con le labbra socchiuse, era irresistibile”; a far da contropartita c’era La Elda, “una brunetta piccola, dai modi garbati ma spicci: aveva un modo tutto suo di dire le cose, era dura, ma accompagnava le parole, anche le più severe, con gesti di gentilezza”; c’è La Maria, che “si butta nel Naviglio”, salvata dagli avventori della Briosca, che mostra “due gocce tonde agli angoli degli occhi, pronte a cadere, povera stella”; c’è La Mariangela, con “gli occhi che sembravano verdi come l’erba dei campi sotto la pioggia”; c’è La Didi Martinaz: “Lei viveva liberamente le sue passioni”, “della sua bellezza se ne faceva un gran parlare. […] Lei lo sapeva, portava sulle labbra il vago sorriso delle donne consapevoli del loro fascino”. Donne irrequiete, donne di traverso, donne disperate, donne che hanno saputo vivere e morire. Con goliardica disperazione o disperata goliardia: poco importa.
Poi ci sono gli uomini della ballata: il signor Pippo, Nanni Svampa, il Pinza, Gildo Negri, partigiano e comunista, c’è Bruno Brancher, lo scrittore malandrino, il Wanda, c’è Primo Moroni, Dix, c’è Billy, c’è il Conte, che “lo chiamavano così perché somigliava a Dracula, ma anche perché non usava il dialetto, parlava come i signori insomma. Era alto, snello, aveva i capelli neri. Aveva occhi scuri e brillanti come due olive, appoggiati su due occhiaie che sembravano disegnate con il sughero abbrustolito”: “Il Conte era uno di quegli uomini che si tengono stretta la loro rabbia, perché gli tiene occupata l’anima, gli fa compagnia”; il Conte era un groviglio di magrezza e di passione, passione per la Didi; il Conte è l’uomo dell’amore che mente, dell’addio, dell’infelicità e del coraggio. C’è Erik, “un ragazzo magro dagli occhi chiari, sempre elegante. […] Aveva uno sguardo tagliente, diffidente, ma gentile”, una sera entra in Briosca in mutande, aveva fatto un tuffo nel Naviglio: “Prendetela come una lettera d’addio”, aveva detto agli avventori suoi amici dell’osteria, andava via da Milano, “la città è stata sommersa dalla droga” e lui, giovane pittore, doveva scegliere se andare via o morire.
Quindi, ci sono i luoghi della ballata: Milano, dolcissima, struggente e amara e lenta, le cui “facciate delle case avevano l’intonaco giallo scrostato, sull’acqua verde scorrevano le chiatte cariche di sabbia proveniente dalle cave. La sabbia era rosa. C’erano i panni di mezza Milano: bianchi e colorati, stesi ad asciugare nei cortili o ammucchiati nelle ceste delle lavandaie.[…] Le chiatte arrivavano, i tram sferragliavano, i treni partivano e in mezzo c’erano ombrellai, lavandaie, musicanti  e perdigiorno”; il Naviglio e la Darsena, la Briosca, lo zoo, le Tre fontane. C’era Bombe e c’era l’ippopotamo, c’erano i fili di rame del telefono usati come corde per le chitarre e c’erano i monaci dell’abbazia di Chiaravalle che facevano a cazzotti con i preti di piazza Bologna.
La ballata ha note di malinconia, è la mancanza di un mondo dove c’era l’amore e la memoria, la solidarietà e l’amicizia. C’era la passione e c’erano le stragi. C’era persino il perdono. C’era la musica, che stordiva e che leniva, che faceva le sue battaglie e non si vendeva mai; c’era la musica pura, quella che non conosceva il vil denaro; c’era l’anima degli uomini. C’era l’umanità. C’era la giovinezza, magra e densa. C’era un dialetto viscerale e c’era la violenza.
Nella ballata c’è l’anima del Pelé, che sembra fare l’occhiolino a quella della poetessa, Alda Merini, che, come lui, ha cantato Milano, ma ora la città è “una grassa signora piena di inutili orpelli[1] . Pelé è in tutti i suoi ricordi. Pelé, al quale ora sua moglie Rosanna ricorda di fare l’insulina, è l’aedo di un mondo che non è più, di un sogno vissuto tra fiori e rovine, tra grappe, Negroni, il busto di Lenin sullo scaffale, il “bianchin sporco” e l’odore di minestra.
Non resta che cantare per un’altra emozione; rubare una zolletta di zucchero da tuffare nel caffè e lasciare che una donna rimanga sveglia ad aspettare ancora un po’.
La scrittura di Roberto Farina è come il lievito madre, trascina l’anima in un impasto che ora travolge, ora carezza, ora commuove, ora fa tremare. Roberto Farina è scrittore di eleganza rara: carismatico, impetuoso. In ogni sua opera c’è un turgore nuovo, simile a quello delle gemme che, a primavera, si approntano ad esplodere. Raffinato e ingordo di Suburra; anarchico, come la libertà; sensuale, come un tango lontano, che è vampa di sperma e di nostalgia.
 La ballata del Pelé è la sintesi di un gusto tutto “fariniano” per le cose belle: è impreziosito dalle illustrazioni di Elfo, dalle fotografie dell’archivio personale di Pelé, dal ritratto del Pinza di Erik Scheller, da saggi e interviste di chi c’era e da un cd registrato al Ligera tra il novembre del 2017 e il gennaio del 2018.
Un romanzo, un saggio, uno spaccato di storia contemporanea, appassionatamente vissuto, amorosamente cantato.
Francesca Aurelio


[1] Alda Merini, Canto Milano, 2007

sabato 24 febbraio 2018

Lettura di Febbraio: Giuseppina Norcia, L'ultima notte di Achille (Castelvecchi, 2018)




Ci sono libri che rivelano, che cambiano il nostro modo di guardare fuori dalla finestra, che ci portano ad un dialogo interiore con noi stessi, che consentono un percorso accidentato dell’anima e, proprio per questo, colmo di fascino e di incantamento: uno di questi libri è certamente L’ultima notte di Achille, di Giuseppina Norcia. L’autrice è  siracusana: la sua “siracusanità” è in ogni fibra del suo essere donna magnogreca, avvezza alla forza tanto quanto alla bellezza, ha sulla pelle quel profumo che soltanto il sud emana e negli occhi quella canicola siciliana che punge lo spirito e l’immaginazione. La stessa “siracusanità” abita le sue parole: L’ultima notte di Achille è un romanzo viscerale, è il racconto ancestrale dell’uomo che nasce e che nasce insieme alla morte, non mostro, ma compagna di ventura.
Il “figlio del mare” è raccontato da una voce narrante d’eccezione: Thanatos, Morte. L’ultima notte di Achille è l’occasione per Thanatos di ripercorrere, parlando sommessamente all’orecchio del figlio di Teti, la vita di un eroe che diventa, nelle pagine della Norcia, un Cristo ante litteram: egli si immola, perché si compia il suo destino.

 Ad Achille, del resto, la morte vuol bene da sempre: eppure questo indissolubile quanto inesorabile amore si esplicita nella continua lotta contro la paura, una paura ambivalente, umanissima per Achille e divina per sua madre: entrambi lottano contro un destino ineluttabile. Entrambi sono figure titaniche: sanno, da sempre, quali scelte bisogna  fare e quali ne saranno le incontrovertibili conseguenze.
E’ il romanzo  di una metamorfosi dolorosa, di un divenire altro da sé che logora, di un mutare la pelle che diventa estenuante. E allora l’amore per Deidamia, dopo la metamorfosi di Sciro, rivela la realtà: Achille torna ad essere se stesso e questo sarà un ulteriore passo verso la morte necessaria, che è la Verità che egli si porta addosso. Quindi Patroclo: l’uomo della vita di Achille, l’amore oltre i sensi, oltre i nervi, oltre ogni confine; quando si ritrovano, dopo il soggiorno obbligato di Achille a Sciro, voluto da sua madre, per preservarlo dalla guerra, l’eroe avrebbe voluto abbracciare il suo diletto, ma ha timore di farlo: “Avresti abbracciato il suo corpo nudo, disperatamente, avresti voluto che il tuo amico ti tenesse stretto a sé fino a farti male, ma provasti pudore per quel desiderio ancora indecifrabile, temendo che lui potesse ritrarsi o respingerti”.
Parte Achille, si reca a rimaner principe per sempre: lui non sarà mai re, come Peleo o Priamo, che sono vegliardi, lontani, per gli anni e per le distanze, da questo eroe che trabocca di umanissimo sentire: in Aulide è furioso, non può comprendere il padre che immola sua figlia, tutto il suo essere è nel sangue di Ifigenia, tutta la sua pietà è per Clitemnestra, che tiene tra le braccia, come se fosse sua madre stessa, mentre la figlia muore.
Ancora la morte. Sempre la morte. Gli abita accanto, mentre gli sta dentro, fin da quando gli strappò un capello d’oro, mentre Teti lo immergeva, in fasce, nelle acque dello Stige: ma l’antidoto al veleno della morte per Achille è stato l’amore sempre, quell’amore che lo ha condotto poi alla sua stessa pira infuocata. 

La narrazione della Norcia raggiunge altezze epiche, tragiche, liriche e queste ultime, forse, sono la nota dominante di tutta la sua scrittura: la prosa poetica di Giusi Norcia regala pagine indimenticabili, passaggi che si imprimono nell’anima e restano lì, come regali, come le lampare all’orizzonte nelle notti senza luna, come sogni, come “unico fiore in mezzo alla tempesta”. E’ il caso dei passi formidabili sull’amore per Patroclo: “Prendesti allora le sue braccia e te le stringesti intorno, con forza, e in quell’abbraccio sentisti per la prima volta di aver trovato casa. 

Ti inebriò il suo odore di rosa e di oliva, mentre sentivi i suoi capelli scendere sciolti sul tuo collo. Il vostro respiro mutò, senza paure, senza remore, nelle poche parole prima del silenzio, nelle carezze di Patroclo sulle tue labbra, sul petto, sui tuoi fianchi duri, nella sua bocca che proseguiva ciò che le mani avevano iniziato. 
Quell’ultima notte in Aulide dormiste in spiaggia sotto la prua di una nave nera, aggrappati l’uno all’altro come naufraghi. Il soffio dei venti, finalmente liberi, faceva fremere i vostri corpi caldi, sudati, sfiancati come dopo una lotta. Il tempo era giunto, ormai”. 

Dopo un altrettanto lirico intermezzo di Thanatos, gli eroi vanno alla guerra: Achille esita ancora tra la vita e la gloria, ma il suo destino “è sempre stato uno solo”; un’ultima trasformazione: Patroclo indossa le armi di Achille, diventa l’altro Achille e va a morire, portandosi con lui l’amore, la vita di quell’umanissimo figlio divino che piange e trema e compatisce; che si adira e muore.

Il romanzo di Giuseppina Norcia è come un lampo che illumina a giorno le notti più cupe: è travolgente come certe pagine antiche, è sapiente, salino; è come il vento che viene dal mare e porta l’odore della salsedine, ti resta addosso; è come quel punto dove l’orizzonte si perde e l’essere umano piange la sua terra lontana, sapendo che vi ha già fatto ritorno. L’ultima notte di Achille è uno dei romanzi più belli che io abbia letto negli ultimi tempi: avrei voluto durasse ancora a lungo, che mi accompagnasse per altre notti ed altri sentieri ancora; le pagine sono finite, ma le parole della Norcia restano. Impresse. Dentro. Con la sensualità del verbo dei sacerdoti, degli indovini e dei poeti.

Francesca Aurelio


lunedì 12 febbraio 2018

LIBRI DI GENNAIO



Mentre febbraio si appresta già a passare dalle variopinte danze carnascialesche alla contrizione quaresimale e il clima sembra piuttosto “marzeggiare”, passando da giornate di flessuosa primavera a venti furiosi e pioggia greve, tiro le somme delle mie letture del primo mese dell’anno. Con una mia amichetta di nove anni, Sofia, assai spesso amiamo raccontarci i libri che andiamo leggendo: ieri ci siamo accorte che non lo facevamo da un po’ e così ho fatto mente locale sulle mie letture di gennaio e, tra una spulciata e l’altra alla “solita” poesia serale, che è l’addio al giorno che passa e la captatio benevolentiae che rivolgo agli dei per la notte che viene (del resto, una sera all’Hotel Roma a Siracusa, Piera mi esortò a non addormentarmi mai senza prima aver letto una poesia: da allora, anche se non riesco a dormire, due versi, pure tre, me li concedo sempre), questo è stato il mese dei “libri rossi”.
Il mio incidentato 2018 l’ho aperto con Annie Ernaux, Memoria di ragazza: è il racconto dell’estate del 1958 di A, è l’estate delle scoperte, l’estate in cui la ragazza di paese, di una famiglia modesta, va a lavorare in una colonia estiva e lì incontra (accoglie) e si scontra con la realtà. L’adolescenza finisce, ma non si trasforma in età adulta. A si trova in una sospensione che è tanto struggente quanto dolorosa e che diventa il perno di tanta vita vissuta in un certo modo proprio perché A ha bevuto tutto intero il calice di quell’estate del ’58. “Ci sono esseri che sono sommersi dalla realtà degli altri, dal loro modo di parlare, accavallare le gambe, accendere una sigaretta. Invischiati nella presenza degli altri. Un giorno, o piuttosto una notte, sono trascinati nel desiderio e nella volontà di un unico Altro. Ciò che credevano di essere scompare. Si dissolvono, e guardano il proprio riflesso agire, obbedire, trascinati nel corso sconosciuto delle cose. Sono sempre in ritardo sull’Altro, sulla sua volontà costantemente avanti di una mossa. Una volontà che non raggiungono mai”: il libro inizia così e questa corsa a perdifiato per raggiungere l’irraggiungibile affanna per tutto il racconto e diventa una misterioso affanno verso la fine di un’epoca per A, che è l’epoca di ogni donna. E’ un libro per femmine, che ogni maschio dovrebbe leggere: è un romanzo su ciò che lascia chi va via con quella superficialità che è una botta in pieno viso e un rasoio che graffia l’anima; è un romanzo pieno di quella verità dalla quale non si guarisce quasi mai. E’ gonfio di timidezze e di “una femminilità ostentata e intoccabile” che è cresciuta a pane e Secondo sesso di Simone de Beauvoir : è colmo di quella necessità di ricostruirsi e di rigenerarsi che solo chi sanguina, come la luna, ha il coraggio di portare a compimento. Scrittura limpida, a tratti feroce, lirica a volte. A mi ha fatto tenerezza e mi ha fatta arrabbiare. Poi non volevo lasciarla. Quando è così, vuol dire che il libro merita d’essere letto.
Il 25 gennaio è uscito per Feltrinelli La Splendente di Cesare Sinatti: l’autore è giovanissimo e scrive luminosamente. E’ un romanzo sugli eroi di Omero, sulle figlie di Tindaro, sulla prole di Atreo. E’ un film, in realtà. L’ho trovato magnifico. Profondo conoscitore di Omero e della tragedia, fantastico narratore. Ho iniziato a leggere questo libro con qualche pregiudizio: mi aspettavo pagine un po’ noiose su argomenti triti e ritriti per chi, come me, considera la letteratura greca la summa di tutto ciò che è santo e bello e pieno di grazia; invece, è stato magnifico ricredermi. E’ una narrazione gustosa, leggera, profondissima; è indagine dentro; è scoperta; è curiosità. E’ persino sfida: “Vediamo come l’ha raccontata questa!”, andavo dicendomi.
“Coloro in cui la fiamma della vita ardeva con più forza si consumavano per primi”: come non caderci dentro? e, allora, di Agamennone hai persino pietà; Menelao ti intenerisce il cuore; Tersite lo prenderesti a sberle pure tu; Patroclo resterà sempre il tuo più bell’amore; ti assolvi di amare tanto i latrati di Clitemnestra e non provi più quel pizzico di invidia per quella bellezza maledetta di Elena, che tanto ha fatto patire. Achille, be’, Achille resta sempre lì, ha quel posto nel tuo cuore che occupa da sempre: Achille è la tua fragilità, la tua paura; Achille canta sempre e tutte le note del suo cuore resteranno per l’eternità tra il carapace della sua magnifica lira e il blu del cielo di Grecia che ti percuote l’anima e, pure, l’accarezza. Sinatti scrive: “I Greci sono eterni bambini”: sì. Lo sono. Perché in loro troveremo sempre quella δεινότης irresistibile che tiene in bilico tra ciò che è tremendo e la meraviglia. 
L’epilogo di Sinatti è il vento di un pomeriggio d’estate che gonfia una tenda d’organza, mentre nella penombra di una stanza rovente si consuma una sensualità liquida…e profumata. 

 Libro da 10 e lode: i classicisti che lo snobbano sono invidiosi e non lo vogliono dire!